Sembra impossibile, ma ci fu un momento della storia recente in cui la destra si trovò a un passo dalla conquista dell’amministrazione comunale di Torino. Sembra impossibile perché nella vita politica cittadina berlusconiani, postfascisti e leghisti sono, da tempo immemorabile, ininfluenti. Nel 1997, invece, la destra sfiorò la vittoria al ballottaggio che vedeva contrapposti il sindaco uscente Valentino Castellani e l’ex ministro Raffaele Costa, esponente di Forza Italia e già segretario del defunto Pli. Unico, vero, tema di quella intensa campagna elettorale: la cosiddetta «emergenza immigrazione».

Torino, in piena fase di de-industrializzazione, salì in quel periodo agli onori delle cronache per i suoi quartieri «difficili». San Salvario, la zona tra la stazione di Porta Nuova e il parco del Valentino, divenne teatro principale di quella «emergenza», e cominciò a occupare le pagine dei media nazionali mainstream intenti ad alimentare l’isteria. Micro-criminalità, degrado e proteste dei residenti italiani divennero gli ingredienti di una miscela esplosiva: un film purtroppo visto molte volte. I problemi indubbiamente c’erano, ma il candidato Costa soffiò sul fuoco per esacerbare gli animi, alimentando risentimento e paure in una parte di torinesi. Tornava ad affiorare il razzismo in una città che, quarant’anni prima, esibiva sui portoni dei suoi palazzi i tristemente noti cartelli che recitavano: «Qui non si affitta ai meridionali».

Per una manciata di voti, però, la destra mancò l’obiettivo. E San Salvario, da potenziale laboratorio di politiche muscolari di «sicurezza», divenne luogo-simbolo di azioni di riqualificazione democratica e partecipata. L’amministrazione – in cui nel frattempo era entrata anche Rifondazione comunista – mobilitò risorse e idee, riuscendo nell’impresa di non ridurre i problemi di quel quartiere a mera questione di ordine pubblico, nonostante la retorica law and order trovasse eco anche a sinistra. Nacquero iniziative istituzionali di coinvolgimento degli abitanti, ma fu anche il tessuto associativo a intervenire, creando luoghi di aggregazione in grado di valorizzare la presenza dei «nuovi cittadini», soprattutto arabi, ma non solo.

Le tensioni vennero governate, e San Salvario poté riscoprire nel corso degli anni la sua antica vocazione multiculturale. Nel quartiere, infatti, si trovano i luoghi di culto delle due principali minoranza religiose della città: la sinagoga e la chiesa valdese, con annessi centri culturali. Minoranze che hanno sempre avuto un importante ruolo nella vita cittadina, contribuendo a rafforzarne – non è una contraddizione – lo spirito laico, tollerante e illuminista: basti ricordare, uno per tutti, l’ebreo torinese Primo Levi. La riqualificazione all’insegna della convivenza cominciò ad attrarre anche artisti, botteghe solidali, club della scena alternativa. E si consolidò anche come zona di vita universitaria, grazie alla vicinanza alle principali facoltà.

Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio. Per una sorta di «dialettica della riqualificazione», San Salvario ha conosciuto, negli anni più recenti, la sua gentrificazione. Case che si rivalutano, prezzi che aumentano, capitali che affluiscono, mentre le diverse giunte comunali (Chiamparino e Fassino) restano a guardare o addirittura incentivano il fenomeno. L’estrema frammentazione delle proprietà immobiliari ha impedito che accadesse come nell’altro quartiere riqualificato, il Quadrilatero romano, dove tutti i vecchi abitanti sono stati espulsi e sostituiti da persone molto più ricche. E tuttavia, anche a San Salvario la speculazione c’è e si vede: hanno chiuso moltissimi negozi per fare posto a pizzerie e ristoranti per ogni portafoglio.

Difficilmente gli immigrati poveri potranno restare ancora a lungo: il vecchio quartiere «pericoloso» e alternativo è diventato di moda. E ora, a turbare – letteralmente – i sonni degli abitanti, italiani e migranti, ci sono la movida e il traffico serale e notturno fuori controllo. Il problema di convivenza, ora, ha caratteri e protagonisti nuovi.