Sono noti, anzi notissimi i versi del Purgatorio dantesco (XXIII, 22-41), nei quali il poeta si attarda a descrivere la magrezza paurosa che affligge i peccatori della gola. Le anime purgano il proprio vizio dimagrando al semplice odorare i pomi della cornice e alla vista dell’acqua zampillante. La scarnificazione del volto è tale da lasciare affiorare il profilo delle ossa: naso e sopracciglia tratteggiano distintamente i contorni di una M gotica.
Tra i purganti sfigurati Dante riconosce – ma l’agnizione è consentita solo per il tramite della voce – il proprio amico di gioventù e concittadino Forese Donati, figlio di Simone e fratello del rissoso guelfo nero Corso e di Piccarda. Molti anni prima i due avevano scambiato sonetti ingiuriosi in una tra le più note tenzoni poetiche della nostra letteratura: tre invii da parte di Dante e tre repliche di Forese. Accuse pesanti di impotenza, avarizia, latrocinio, golosità: Forese – dice Dante nel secondo invio, Ben ti faranno il nodo Salamone – finirà nei guai a causa della sua passione per il cibo (specie per le carni succulente come «e petti delle starne» e «la lonza del castrone» ‘la lombata d’agnello castrato’). Sono testi riconducibili verosimilmente a un’epoca di traviamento morale del poeta che si suole collocare dopo la morte di Beatrice e avanti il fittizio avvio del viaggio oltremondano (grosso modo tra 1290 e 1300). L’episodio purgatoriale, dunque, riceve luce e senso dal precedente tenzonesco di cui costituirebbe, anzi, una sorta di ammenda, di palinodia: basti ricordare che nel Paradiso Dante farà rimare la parola «Cristo» esclusivamente con se stessa, laddove nella tenzone (nel terzo sonetto dantesco) l’aveva appaiata agli ingiuriosi epiteti «tristo» e «male acquisto», a significare che, di Forese, Simone non era che il padre putativo («che gli appartien quanto Giosepp’ a Cristo», cioè ‘che gli è padre quanto Giuseppe è padre di Cristo’).
Che qui ci si trovi di fronte a un ‘Dante letterato’, intento a giocare sull’autocitazione e a fare storia della propria produzione poetica, parve già a Gianfranco Contini il quale, liquidando sornione l’effettivo traviamento morale («non contesto il presunto traviamento»), vi accostò, con maggiore convinzione, una controproposta stilistica: «tutto tornerebbe piano se quella vergogna fosse semplicemente una condanna d’un’esperienza stilistica esercitata a comune (…) e vinta sull’esempio ‘tragico’». L’aristocraticismo stilistico continiano non ha sempre trovato uguale fortuna presso i critici più moderni che paiono prediligere chiavi di lettura eminentemente biografiche, e forse non sempre altrettanto persuasive (ma spesso difese in punta di picca nei moderni torneamenti accademici).
Comunque stiano le cose, l’intera vicenda è oggi agevolmente percorribile nella nuova edizione commentata del Purgatorio appena uscita presso Einaudi quale frutto estremo del compianto dantista Saverio Bellomo (Dante Alighieri, Purgatorio, «Nuova raccolta di classici italiani annotati», pp. XLVIII – 650, € 60,00; il libro verrà presentato martedì 28 gennaio 2020 alle ore 15, a Verona, presso l’Aula Magna del Liceo Classico S. Maffei). Prematuramente scomparso il 10 aprile del 2018, Bellomo ha interrotto la propria fatica a pochi passi dal traguardo della seconda cantica. Il commento è stato condotto a termine dall’amico e sodale Stefano Carrai. La struttura segue fedelmente quella già ben collaudata per la prima cantica e riassunta in esergo al primo volume (2013) da Cesare Segre: niente sfoggi eruditi; precedenza all’interpretazione letterale e alla bibliografia che ha dimostrato di resistere al tempo; ogni canto preceduto da una Introduzione su protagonisti e vicende storiche che formano materia dei versi e chiuso da una Nota che ne illustra procedimenti formali e intertestuali, con ricchezza di collegamenti alle altre opere dantesche e alle fonti. L’opera non solo si presta a un’agile fruizione da parte del lettore ma si raccomanda anche come utile adozione per i licei. In questo caso il lettore è guidato con mano sicura dal Purgatorio ai testi della tenzone: andata e ritorno, con tutto il corredo storico biografico necessario, ma senza eccedere mai, com’era abitudine di Bellomo.
La tenzone con Forese permette un agile trasferimento all’ultima edizione commentata delle Rime di Dante, fresca di stampa presso la Salerno Editrice (Dante Alighieri, Vita Nuova. Rime, tomo II, Le rime della maturità e dell’esilio, a cura di Marco Grimaldi, «Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante», pp. XLIV-744,€ 49,00). Il primo tomo era apparso nel 2015, ospitando la Vita Nuova e le cosiddette Rime del tempo della Vita Nuova (o, per capirsi, della giovinezza). Titoli, impianto e testo seguono sostanzialmente il solco già tracciato nell’edizione del centenario (1921) da Michele Barbi e giunto a compimento grazie ai suoi collaboratori (Francesco Maggini e Vincenzo Pernicone) nei due splendidi volumi dell’editrice Le Monnier (1956 e 1969). Anche l’ordinamento è, in buona sostanza, il medesimo, fondato su un criterio che Barbi aveva voluto ponderatamente cronologico, pur senza nascondersi le insidie e le dubbiezze che avrebbe inevitabilmente lasciato cadere lungo la via. Nel mezzo tra Barbi e noi sta il monumento in cinque tomi dell’edizione critica curata da Domenico De Robertis per la Società Dantesca (2002): l’esplorazione integrale della tradizione manoscritta ha prodotto scelte testuali nuove di cui Grimaldi ha talvolta tenuto conto, e che ha talvolta rifiutato, debitamente motivando le proprie posizioni. De Robertis aveva abbandonato l’ordinamento Barbi a favore di quello testimoniato dai codici più autorevolmente adagiati dentro il proprio stemma: non più dunque le rime giovanili e del tempo della Vita Nuova e, poi, quelle della maturità e dell’esilio ma prima il blocco di quelle che Boccaccio definì le quindici canzoni «distese», e poi, via via, gli altri testi, sempre disposti sulla base di un criterio ragionevolmente filologico (fors’anche ammiccante alla philologie matérielle).
La nuova disposizione aveva aperto la strada all’ipotesi – da De Robertis per vero mai esplicitata – del cosiddetto ‘libro delle canzoni’: sullo scrittoio di Dante sarebbe, insomma, rimasto un abbozzo di canzoniere, non troppo lontano dalla sequenza di canzoni ricostruibile a partire dal moncone del Convivio e da quanto si intuisce sulla sua possibile struttura complessiva. La sequenza, precedentemente assegnata all’iniziativa del Boccaccio, lasciava traccia di sé anche in quella parte della tradizione manoscritta antecedente e indipendente dal lavoro editoriale del certaldese e dunque, secondo De Robertis, gli preesisteva. La questione non pare ancora risolta ma, nell’attesa, la strategia editoriale della collana Salerno ha preferito adottare un piano prudenziale, e forse è meglio così. Il testo, come si diceva, è quello approntato da Barbi, accogliendo in misura molto limitata alcuni degli interventi di De Robertis, senza procedere tuttavia a un controllo della tradizione manoscritta (tra le poche e minime escursioni – p. XXIII – proprio in Ben ti faranno si corregge «e petti delle starne» in «i petti delle starne» essendo e forma dell’articolo attestata «solo nel fiorentino argenteo»; ma per vero e occorre spesso nel Duecento, senza nemmeno richiedere l’apocope e’ in luogo di ei; almeno in questo caso era forse meglio non intervenire).
Il commento è molto ricco e soddisfa tutte le esigenze e le curiosità del lettore: ogni testo è corredato da un denso cappello introduttivo e accompagnato da ricche note illustrative. Grimaldi si mostra a suo agio con la letteratura contemporanea e precedente a Dante ed esibisce alcuni preziosi recuperi di possibili fonti o paralleli dalla letteratura dei trovieri di cui è buon conoscitore. Naturalmente ampio spazio è dedicato anche a questioni attributive, tra tutte proprio quella relativa alla tenzone con Forese sulla cui parziale autenticità sono state sollevate in passato alcune perplessità (i dubbi si addensano attorno alla seconda coppia), che Grimaldi ragionevolmente respinge.