Per la seconda volta in tre anni, Obama si trova a dover decidere un intervento armato in un paese arabo. Con la differenza che la Siria non è piccola come la Libia, ma una media potenza, il cui apparato militare, anche se indebolito dalla guerra interna in corso, è ancora capace di reazioni imprevedibili. Un paese, inoltre, che dispone di un alleato potente, l’Iran, e di una forza ausiliaria non trascurabile come Hezbollah.
La relativa forza della Siria e la sua collocazione in un’area strategica complicatissima spiegano l’accavallarsi di voci e semi-smentite sulla decisione, (da prendersi «nelle prossime quarantotto ore») di un attacco «entro dieci giorni». Un modo curioso di lanciare un ultimatum, che assomiglia più che altro a un ballon d’essai, una via di mezzo tra una minaccia rivolta al giovane Assad e un messaggio lanciato alla Russia. Resta il fatto, però, che la crisi si sta avvitando pericolosamente in direzione di un intervento armato.
La situazione, tuttavia, è soggetta a ogni tipo di variabile. Per cominciare, Obama non deve essere entusiasta, anche se in ogni caso sembra che l’intervento americano non andrà al di là di un bombardamento degli impianti e dei comandi militari e delle sedi del potere. Già invischiati in Afghanistan, con la disastrosa esperienza irachena e il pasticcio libico alle spalle, i generali americani hanno già spiegato che un intervento in Siria è molto più rischioso di quanto non pensino francesi e inglesi, il cui interventismo presuppone sempre che la potenza americana arrivi prima o poi a cavar le castagne al fuoco.
Ma le incognite sono soprattutto politiche. Un intervento anglo-americano scatenerebbe reazioni a catena in Libano e probabilmente al confine di Israele, metterebbe in fibrillazione la Turchia, tentata di ricavare vantaggi al nord della Siria e avrebbe ripercussioni in tutto il mondo arabo, dall’Iraq al Sinai egiziano. Proprio quello che Obama, dopo il colpo di stato in Egitto contro Morsi, teme più di ogni altra cosa.
Il vento delle primavere arabe, che all’inizio sembrava soffiare in direzione dell’occidente, ha risvegliato ogni tipo di radicalismo islamico, e oggi gli Usa si trovano ad avere come alleati, contro Assad, forze analoghe a quelle contro cui combattono in Afghanistan, Iraq e Yemen, e che gli egiziani cercano di contenere nel Sinai. Un pasticcio strategico inverosimile.
E poi sullo sfondo c’è il conflitto, strisciante ma evidente, con la Russia e la Cina. Dopo l’11 settembre, gli Usa hanno stabilito una catena di basi che inizia in Giordania e finisce al confine cinese. Di fatto, la Russia è accerchiata. Ma, diversamente da una decina d’anni fa, gli americani sono più deboli, anche per la crisi economica, e la loro strategia più incerta. Ecco perché Obama si farà trascinare di malavoglia nel conflitto siriano. Ma si farà trascinare?
Probabilmente sì, perché, più dell’avventurismo inglese e francese, conta la debolezza interna del presidente americano, esposto alle critiche dei falchi e dei repubblicani. Un attacco missilistico gli sembrerà, per il momento, la soluzione più economica e meno rischiosa. Per il momento, però, perché nessuno è in grado di prevedere le reazioni siriane e iraniane.
Ed ecco che il conflitto interno in Siria, che Turchia, Arabia saudita, Qatar, da una parte, e Iran, dall’altra, hanno alimentato con uomini e mezzi, si sta trasformando lentamente, inesorabilmente, in un conflitto regionale e forse globale. Per ora, con il solo vantaggio delle formazioni armate fondamentaliste. In tutto questo, i massacri di civili sono solo un casus belli.
E l’Italia? Beh, apparentemente, Emma Bonino, che un po’ se ne intende, non è entusiasta, ma il vertice di maggioranza tra Alfano, Bonino, Mauro e il presidente del consiglio di ieri sera ha detto che «è stato superato il punto di di non ritorno». Letta mette l’elmetto per salvare il governo? Come dimostrano la vicenda libica e quella degli F35, quando si viene al dunque, l’Italia china la testa e si adegua agli ordini.