Il primo link che il volume di David Graeber sulla Burocrazia (Il Saggiatore) produce è agli storici studi Max Weber sul tema, cioè quelle procedure messe in atto nella modernità per un buon governo della società. Weber ha usato l’immagine della gabbia d’acciaio, volta a stabilire norme e principi che imbrigliassero le passioni dei singoli e di quell’indistinto pulsare di interessi che si è soliti chiamare società civile. Ma se per il sociologo tedesco la burocrazia era un fattore limitante, eppure necessario della libertà, per l’antropologo britannico la gabbia d’acciaio non ha nulla di necessario. Quel che è evidente è la limitazione della capacità di autorganizzare il vivere in comune che caratterizza la specie umana. Per un libertario come Graeber questo è il punto di partenza e di arrivo della sua riflessione, come è evidente in tutti i suoi scritti, compreso il monumentale affresco storico sul Debito, sempre pubblicato da il Saggiatore.

Ma se nel debito lo Stato, e le sue istituzioni, l’esempio afferiva alla capacità degli uomini e delle donne di regolare la loro vita in comune – fossero anche messe all’angolo in nome di un interesse di una parte della società a scapito della maggioranza della popolazione-, in questo ambizioso saggio sulla burocrazia Graeber punta l’indice contro l’incapacità della sinistra politica globale di fare propria la critica antiautoritaria, assumendo la difesa dello Stato e della sua burocrazia come tratto distintivo in nome di quella forma storica contingente di regolazione del conflitto tra capitale e lavoro vivo che è stato il welfare state. Chi invece ha prosperato nella critica antistatale è stato il pensiero conservatore neoliberista, che è diventato egemone ammaliando anche le burocrazie politiche dello schieramento avverso, cioè i partiti politici progressisti.

Il punto di avvio della riflessione di Graeber è dunque polemico sia verso la sinistra che la destra. Per un verso, la difesa delle conquiste del movimento operaio è stata tradotta come conservazione di un assetto istituzionale. I conservatori neoliberisti, invece, hanno «giocato» a fare gli innovatori, puntando a demolire quella gabbia d’acciaio la cui necessità storica è venuta meno una volta che gli spiriti animali del mercato hanno conquistato il centro della scena. A suo tempo, Antonio Gramsci si dilungò parecchio sul sovversivismo delle classi dirigenti per spiegare la crescita del fascismo storico. Nell’era neoliberista, non c’è sovversivismo dall’alto, ma una banale eppur potente capacità dell’élite di mettere a nudo il potere coercitivo della burocrazia nel negare bisogni e desideri, indicando nel mercato il regno indiscusso non della necessità, bensì della libertà.

Graeber ha molte frecce nel suo arco nel provare a cercare a demistificare l’assunto neoliberista del «meno stato». La più micidiale è la successione di esempi che costellano le pagine del suo libro, laddove emerge il fatto che con il neoliberismo la burocrazia non è diminuita, bensì aumentata, quasi a diventare proprio quella gabbia d’acciaio weberiana senza però nessuna aura della sua necessità: la burocrazia è solo potere di un gruppo sociale che «cattura» la ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale.

C’è nella riflessione dell’antropologo britannico un afflato polemico condivisibile, ma un eccesso di semplificazione che pregiudica l’intero impianto teorico. A partire da quell’evocazione della servitù volontaria che anima il corpo sociale quando vive in stato di precarietà. Più che servitù volontaria, la burocrazia contemporanea ha sì quella dimensione impersonale, astratta (le procedure da rispettare alla lettera), ma invece di funzionare come una tecnologia del controllo agisce come una governance che richiede più che un atto di servitù, l’attiva partecipazione del corpo sociale: i burocrati sono solo i guardiani di tale «cattura» da parte dell’élite della ricchezza socialmente prodotta. Il neoliberismo ha prodotto una superfetazione di norme, procedure tendenti a regolamentare l’insieme delle relazioni sociali: la burocrazia serve solo a regolamentare il loro funzionamento, a certificare l’adesione del corpo sociale alle procedure stabilite e a legittimare la loro modifica, promuovendo un’innovazione just in time di tali dispositivi al fine di garantire l’appropriazione privata della ricchezza da parte della élite.

Nel libro di Graeber non vanno certo cercate analisi sulle classi sociali, né sul regime di accumulazione capitalista. La forza dell’esposizione di Burocrazia sta poggia semmai nelle pagine dove l’autore evidenzia contraddizioni, aporie tra quanto afferma il mantra liberista sul ruolo negativo esercitato dallo stato e la sua traduzione operativa. È da questo punto di vista un pamphlet riuscito, da prendere in mano come antidoto all’ideologia dominante; e alle retoriche di uno statalismo ormai privo della sua base materiale. L’esito «antistatalista» del volume non scioglie alcuni nodi, infatti una volta distrutta la gabbia della burocrazia, il dispositivo da mettere in campo è la produzione di istituzioni che contemplino non l’assenza della burocrazia, bensì la sua revoca, la sua sottomissione alla cooperazione sociale che crea le sue istituzioni. In fondo la differenza tra una giocosa attitudine libertaria e quella altrettanto giocosa marxiana passa proprio sul cambiare la prospettiva rispetto il «fattore organizzazione»: per i libertari è il fine da evitare, per i marxiani è solo un mezzo.