Molte se non tutte le buone riforme sono frutto di un compromesso, come la riforma del processo penale che però tanto buona non è. Il testo approvato ieri, al contrario, dimostra che in questo caso una buona mediazione era impossibile. Bisognava scegliere. Si trattava di mediare tra una proposta di legge delega firmata dall’ex ministro della giustizia Bonafede, uno che il suo posto nella storia della civiltà giuridica se l’è conquistato con il video musicarello sull’arresto e identificazione di Battisti, e le proposte della commissione guidata da un giurista come Giorgio Lattanzi.

Missione impossibile. La ministra Cartabia ha voluto provarci, concedendo in partenza ai 5 Stelle la conferma del disegno di legge originario, riscrivendolo però da capo con gli emendamenti (basta dare uno sguardo sul sito della camera ai due testi a fronte per smentire Conte quando dice di aver «conservato i due terzi»).

Alla fine per portare a casa entro l’estate un primo sì di tutta la maggioranza – condizione necessaria, vedremo se sufficiente, per rispettare i tempi scritti nel Pnrr – sul punto più delicato e più contestato, quello della prescrizione, la ministra ha provato a innestare i principi costituzionali del giusto processo sul tronco piantato da Bonafede e Salvini nel 2019. Operazione, appunto, impossibile.

Per brevità non diremo dei diversi pregi e neppure dei tanti limiti della riforma, che avrebbe dovuto essere assai più coraggiosa sul fronte dell’incentivo ai riti alternativi e del diritto penale minimo per sperare in una reale riduzione dei tempi dei processi penali. Per la quale riduzione non basteranno certo le assunzioni di personale previste, peraltro con funzioni non ben definite e a tempo determinato.

A parere di chi scrive non è uno scandalo nemmeno che il parlamento indichi i criteri generali per orientare le priorità dell’azione penale, visto che dovrà farlo con legge – alla quale e solo alla quale sono soggetti giudici e pm – e visto che criteri di priorità sono seguiti già oggi in tutti gli uffici giudiziari, non sempre con la trasparenza che viene adesso prescritta.

Restiamo sulla prescrizione. Bisognava correggere il disastro compiuto da Lega e 5 Stelle, Conte uno a palazzo Chigi, quando hanno infilato nella legge da loro battezzata Spazzacorrotti la cancellazione totale dell’istituto dopo la sentenza di primo grado. Una mossa con la quale il peso delle inefficienze dello stato è stato scaricato tutto sulle spalle degli imputati, destinati a restare a vita presunti colpevoli o presunti innocenti. A questo disastro non è riuscita a rimediare, nella sostanza, la maggioranza giallo-rossa, quella del Conte due.

La ministra Cartabia ha dichiarato subito di volersi fare carico del problema e la “sua” commissione Lattanzi ha proposto due soluzioni alternative. Entrambe davano per scontato che fosse necessario cancellare il disastro firmato da Bonafede e avvallato da Salvini. E invece, alla fine, Cartabia e Draghi hanno deciso di salvare quella bandierina dei 5 Stelle. Per ridurne la portata hanno inventato una soluzione ibrida con la quale ripristinare, almeno un po’, il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Il risultato non è buono per almeno quattro ragioni.

La prima è di pura logica: è stato il governo (non l’Europa) a stabilire l’urgenza della riforma del rito penale per ridurre i tempi delle udienze del 25% nei prossimi cinque anni, salvo poi rinviarne di tre la piena entrate in vigore. La seconda è di principio: la decisione finale sui tempi effettivi della prescrizione è nel nuovo sistema affidata al giudice (anzi, ai giudici perché la decisione è impugnabile in Cassazione) che diventerà così doppiamente arbitro dei destini dell’imputato oltre e sopra le legge, potendo anche decidere se il processo deve restare in vita. La terza ragione di insoddisfazione per la riforma è che essa contiene una dichiarazione di resa. Il male italiano dei processi infiniti viene assunto come ineliminabile. Per alcuni reati particolarmente gravi (mafia, terrorismo) la prescrizione non scatterà mai, come nel modello Bonafede. Per altri di minore gravità si mette nero su bianco una durata “regolare” dei gradi di appello fino a nove anni.

Ai quali aggiungere un altro anno, ottenuto spostando le date dalle quali parte il conteggio. Dieci anni oltre a tutta la durata del primo grado (che resta senza limiti, mentre è già tre volte la media europea, da qui le ripetute condanne che ci ha inflitto la Cedu). Il paradosso, infine, è che questa dilatazione dei tempi concessa ai 5 Stelle, avendo introdotto una discriminante tra reato e reato, lascia fuori alcuni processi importanti come quelli per i reati ambientali sui quali prevedibilmente si dovrà tornare, annacquando ulteriormente la riforma.

Se i compromessi sono necessari e niente affatto scandalosi, i cattivi compromessi possono però risultare sconvenienti per chi li firma. In questo caso Giuseppe Conte, che per una parte dei 5 Stelle ha ceduto troppo. E Marta Cartabia, che rischia di essersi comunque alienata l’appoggio del Movimento ora che è partita la corsa al Quirinale.