Sono oltre mezzo milione gli zigeuner, i gitani di etnia rom e sinti, uccisi dalla furia nazista, prima e durante la seconda guerra mondiale. Un massacro di popolazione tedesca abbastanza sconosciuto e dimenticato, dapprima rinchiusi nei lager e poi eliminati, compagni dei milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento. Da qualche anno è stata riportata alla luce la storia di Johann ‘Rukeli’ Trollmann, il campione di pugilato che sfidò il male assoluto, il diffondersi dell’ideologia ariana anche nello sport e venne discriminato nella carriera e nella vita per motivi razziali essendo d’origine sinti.
Era il nono figlio di un musicista girovago, nato nel 1907 a Wilsche, in Bassa Sassonia, un bel ragazzo dai capelli ricci neri, una folta chioma e un fisico diritto come un alberello (rukeli viene da ruk, albero in lingua romanes), un boxeur nato, con doti tecniche e abilità non comuni già da adolescente, un eroe del quadrato affrontato con la dignità e l’orgoglio della sua gente (sui suoi pantaloncini c’era scritto Gipsy, zingaro). La sua commuovente via Crucis, il divo osannato dalla folla poi abbandonato da tutti e costretto a nutrirsi e nascondersi nei boschi, è stata raccontata in alcuni volumi e persino in film per la tv.

Ora due libri, Alla fine di ogni cosa di Mauro Garofalo (Frassinelli editore, pp.264, euro 18,50) e Razza di zingaro di Dario Fo (Chiarelettere, pp.160, euro 16,90), si concentrano su questo pugile assai moderno e innovativo (che molti, poi, accosteranno allo stile di combattimento di Muhammad Ali, «sul ring danzava come uno zingaro» scrivevano i giornali reazionari tedeschi), che non volle abbandonare il suo paese ma dovette divorziare per salvare la moglie e la figlia dalla pulizia etnica.
Garofalo, un giornalista appassionato e praticante della nobile arte in una palestra popolare milanese , ha scelto di calarsi nel personaggio, aggiungendo particolari e personaggi di fantasia alle scarne note biografiche del pugile componendo un romanzo avvincente, giocato sulle atmosfere e i colori di Hannover e Berlino, i teatri dei suoi magnifici incontri, puntando sulla dura routine d’allenamento, tra sacco, corda, quadrato e sparring partner e immaginando gli stati d’animo di un uomo bello come una divinità greca, giunto al culmine del successo e travolto dalle aquile naziste, ingiustamente escluso e penalizzato.

Principalmente, sceglie di tratteggiare la vicenda umana del ragazzo, un diverso per le autorità teutoniche e perciò scartato per le Olimpiadi di Amsterdam del 1928 dove venne mandato un pugile che Rukeli aveva già battuto. Non l’aiuteranno il suo attaccamento alle tradizioni del suo popolo e la dedizione assoluta al pugilato, una disciplina molto amata in Germania e ritenuta esempio massimo di virilità, secondo i canoni razziali hitleriani, tale da non poter essere lasciata nelle mani di un non-tedesco.
«Per Trollmann il pugilato era prima di tutto un gioco e non un annientamento dell’avversario del quale aveva massimo rispetto in quanto spalla, coprotagonista dello spettacolo», dice Dario Fo che ha disegnato anche le smaglianti illustrazioni del suo libro intrigato dalla figura eroica di quest’artista dello sport che proseguiva il lavoro di grande creatività dei circensi, dei suonatori, dei cantastorie ambulanti.

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Fo punta molto sulla storia tramandata oralmente, su un affresco della cultura gitana, sulla formazione del giovane pugile, grazie alla ricerca meticolosa e storicamente ineccepibile di Paolo Cagna Ninchi (curatore del libro Buttati giù zingaro di Roger Repplinger, del 2013, uno dei primi a narrare questa tragica storia dove si svolge in parallelo anche la vicenda di Tull Harder, ex centravanti dell’Amburgo e della nazionale tedesca e poi convinto nazista e direttore del campo di Neuengamme) e Jana Pavlovic, avvalendosi anche di documenti d’epoca. Il suo libro dovrebbe essere portato, nei prossimi mesi, sul grande schermo con Fo, nella parte di Zirzow, l’allenatore che ha migliorato lo stile e accompagnato la carriera di Rukeli.

Trollmann divenne professionista nel 1929. Abile nelle schivate e in rapidissimi movimenti laterali per evitare i colpi, con una boxe originale e divertente, Rukeli aveva questa capacità di vedere prima da dove arrivava il pugno, di registrare in anticipo le mosse dell’avversario, e così riuscì a battere rivali molto più grossi. Nel periodo tra ottobre 1929 e maggio 1933, vinse 29 incontri su 52 disputati, l’epoca in cui la politica nazista comincia a danneggiarlo, limitarlo, perseguitarlo, con le Sturmabteilung, le squadracce d’assalto, schierate in alto, negli impianti, a deriderlo e insultarlo. Era un divo, acclamato dal pubblico e benvoluto dalle donne.

Il suo graduale itinerario di avvicinamento al titolo dei pesi medi ha la serata magica, il 9 giugno del 1933, da gennaio Hitler è cancelliere del Reich, a febbraio le SS avevano incendiato il Reichstag, il Parlamento, incolpando gli oppositori di sinistra e mettendoli in prigione. Il clima di violenza e di intolleranza è al massimo. Il quadrato è montato alla birreria Bock, 71,3 chili di peso Trollmann, l’altro contendente è «l’alfiere del pugilato tedesco», Adolf Witt, ammesso a combattere per il titolo dei pesi medi malgrado un peso di 77,9 chili, un massiccio sparapugni biondo.
Gli sfidanti approfittano della fuga all’estero di Erich Seelig, il detentore della corona, ebreo e minacciato di morte. Rukeli domina l’incontro con maestria e leggerezza eppure George Radamm, il gerarca nazista e presidente dell’associazione pugilistica tedesca, ordina agli arbitri di sancire il no contest, gara ingiudicabile. Non può la razza ariana essere battuta da uno zingaro ballerino. Invece il pubblico rumoreggia e obbliga i giudici a dare la meritata vittoria a Rukeli Trollmann, il nuovo campione, che aveva tutti i cartellini a suo favore.

Solo pochi giorni dopo la federazione gli manda una lettera, non riconoscendo il suo titolo. È costretto a un nuovo incontro, il 21 luglio, contro un altro gigante ariano, Gustave Eder ma le SS gli intimano di non muoversi, deve stare al centro del ring, altrimenti gli verrà tolta la licenza di pugile. Di fronte a questo ignobile ultimatum, Rukeli si presenta sul ring con i capelli tinti di biondo e col corpo cosparso di farina, una nuvola bianca, nella perfetta caricatura della razza pura tedesca. Resiste per cinque round prima di finire sanguinante al tappeto.
Da allora in poi è un calvario di privazioni, abusi (viene cacciato dalla federazione perché combatte in incontri clandestini, nei luna park), che vanno dalla sterilizzazione (in quanto razza degenere) alla «chiamata alle armi» per essere spedito al fronte con la divisa della Wehrmacht, fino alla deportazione nel lager di Neuengamme, vicino ad Amburgo. Purtroppo le SS lo riconoscono e l’obbligano a combattere all’interno del campo, davanti ai prigionieri, con diversi aguzzini, vogliosi di fare a pugni con l’ex campione. Spesso viene picchiato e deriso. Nonostante la scarsa alimentazione, il deperimento fisico e la condizione psicologica, Rukeli infligge una lezione al kapò Emil Cornelius, un criminale comune, mandandolo in breve al tappeto. Purtroppo, la vendetta subdola arriva pochi giorni dopo, Rukeli viene ucciso il 9 febbraio del 1943.

Ottanta anni dopo, la Germania ha riconosciuto il suo errore e ha consegnato alla figlia Rita la corona di campione dei pesi medi che gli aveva negato ingiustamente, in quel terribile 1933. Nel quartiere Kreuzberg di Berlino c’e un ring vuoto nel Victoriapark, con un numero, il 9841, l’identificativo di Rukeli nel campo di concentramento, un monumento voluto dalla comunità artistica locale in ricordo di un uomo che ha combattuto con valore e dignità, di un albero piantato a terra che non si è piegato alla valanga nazista.