È un’importante occasione per fare il punto su un pittore cardine del modernismo la retrospettiva Arshile Gorky. 1904-1948, che si è aperta a Ca’ Pesaro, Venezia. Curata da Gabriella Belli e Edith Devaney e visitabile fino al 22 settembre, presenta dipinti, disegni e opere su carta che mostrano l’evoluzione dell’artista fuggito negli Stati Uniti dopo aver vissuto il genocidio armeno del 1915 (in un percorso che riunisce insieme circa ottanta lavori, provenienti da collezioni internazionali sia istituzionali che private).
Ciò a cui immediatamente ci si trova di fronte è la riconoscibilità degli stili su cui Gorky lavorava e che utilizzava, peraltro con grande perizia e talento: Cézanne, Picasso, Léger, Mirò, su tutti. E tuttavia, nello stesso tempo, dalla sua opera emerge altrettanto inequivocabilmente qualcosa di singolare, un tocco deciso, unico, inconfondibile, molto fisico e insieme di una liricità tormentata, dato soprattutto da una particolare pesantezza delle masse di colore (che, a volte, negli ultimi anni si trasformerà in una sorprendente leggerezza) e da una peculiarità di composizione che riprende procedimenti antichi e orientali, mascherandoli in un impianto moderno.

NON È UN CASO che fosse affascinato da Paolo Uccello, più interessato alla cosa posta nello spazio che alla cosa tout court, la quale perciò risulta tanto definita quanto astratta. Inaspettata, invece, appare a prima vista la passione che nutriva nei confronti di Ingres, che si comprende poi nel modo di trattare la superficie del dipinto e, soprattutto, in una certa atemporalità che il pittore francese raggiungeva mediante la stesura del colore.
Il fatto è che Gorky non aveva alcun interesse per l’originalità fine a se stessa, né tantomeno per la pratica della citazione, che s’imporrà più tardi con il postmoderno. Se c’è qualcosa come un segno gorkiano della pittura – e senz’altro c’è –, questo sembra provenire da altrove rispetto a ogni preoccupazione di novità, quasi da dentro la pratica stessa del dipingere. Solo entrando nell’idea la si può portare da qualche parte. E le grandi idee pittoriche hanno al loro interno campi smisurati da esplorare. Quello che deve fare l’artista è spostare l’asticella un po’ più in là, lavorare con metodo, badare alle relazioni tra le forme, tendere alla precisione – è così che può accadere un mondo pittorico o, almeno, così è accaduto a Arshile Gorky.

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FORSE NON È ESTRANEA a ciò la sua condizione di profugo che doveva in qualche modo misurarsi con una tradizione, quella europea, diversa dalla sua e farla propria. E poi, certo, – a partire più o meno dai disegni dell’estate del 1943 e quindi, attraverso un dura pratica, nelle opere degli ultimi anni – una soglia viene attraversata, qualcosa si sblocca e si apre.
Nei suoi esiti migliori, è una pittura di forme in movimento, vive, migranti, con un uso del colore a volte essenziale, altre eccessivo, mai banale, dove si può ancora riconoscere qualcosa (Breton trovò addirittura che vi fosse un qualcosa di Toulouse-Lautrec in The Liver is the Cock’s Comb), ma che s’impone per la sua seppure straziata affermatività.
Non fu tuttavia una cesura brusca, quanto piuttosto il raggiungimento di un picco d’intensità, come se tutto cominciasse lentamente a risuonare in tutto.

MA C’È UN’ALTRA cosa che l’intera opera di Gorky trasmette. È un’impressione, indotta dal suo peculiare modo di dipingere e disegnare. Sia nei ritratti che nelle opere astratte – in termini diversi, ma non così tanto come si potrebbe pensare – si percepisce la presenza urgente, persistente e a volte ingombrante della memoria, del dolore, dell’inaudito, anche se nulla nel quadro rimanda esplicitamente a ciò.
Il Ritratto di Ahko (ca. 1937), in particolare, con la chiara linea che collega le dita della mano al volto dagli occhi svagati, sembra provenire da un passato lontanissimo. E lo stesso accostamento al surrealismo con quelle forme oniriche, magmatiche, inconsce che in Gorky arrivano da dentro la tela per poi espandersi con un ritmo e una composizione propri, è ancora un’occasione per celare qualunque gesto possa apparire esplicito o evocativo, affidandosi completamente a quell’artificio che è la pittura.
Non si tratta di reticenza, ma di pudore. Se c’è un sentimento che emerge da una produzione così controllata nei sentimenti come quella di Gorky, questo è il pudore, che – come dice Hegel nelle Lezioni di Estetica – «considerato nel modo più generale, è l’inizio dell’ira contro qualcosa che non deve essere». È forse di questo inizio che è questione nell’opera di Gorky. Sempre, ancora, l’inizio.