Algoritmi Indiani (Vita Activa edizioni, pp. 154, euro 14) è l’ultimo libro di Laila Wadia, scrittrice indiana residente in Italia da trent’anni, autrice di diversi romanzi e collezioni di racconti brevi in cui si è misurata su temi come immigrazione, diritti delle donne e multiculturalismo.
Wadia, che interverrà domani alla IX edizione del Festival Leggendo Metropolitano di Cagliari – dedicato alla memoria – con Algoritmi Indiani affronta due delle tematiche fondamentali dell’India contemporanea: la condizione delle donne e l’influenza dell’aspirazione a un progresso «a tutti i costi» nella società indiana odierna. Partendo dalla vicenda personale di Rani, esponente esemplificativa della nuova «giovane in carriera» improvvisamente colpita dalla crisi economica globale, Wadia presenta una serie di esistenze femminili – tratte da storie vere – spesso agli antipodi ma, in qualche modo, capaci di compenetrarsi e convivere in un paese alle prese con una transizione socioeconomica profonda.

Con quest’opera ha indagato due questioni decisamente urgenti nella società indiana attuale. Hanno radici profonde nel passato, in quel paese che lentamente viene inghiottito dall’avanzata del progresso…
Nel libro ci sono foto di una Bombay moderna per far capire al lettore che può essere una Hong Kong o una Singapore… Ogni volta che torno in India, vedo svanire i miei punti di riferimento. Vengono su sempre più centri commerciali e spariscono, ad esempio, i ciabattini sotto casa, quei luoghi di aggregazione, quei volti che sei abituata a incontrare sul marciapiede. Quando scompaiono quelli, ogni volta per me è uno shock, ma penso anche: è giusto provare questa sensazione? O è la tipica lamentela di tutti gli immigrati che vorrebbero il proprio paese quasi fossilizzato? È giusto che una persona che non vive più là critichi uno «sviluppo»?

Nel suo romanzo, lei evidenzia la minaccia che questa idea di progresso sfrenato rappresenta per milioni di indiani, a rischio di essere lasciati indietro da una società proiettata verso un futuro individualistico. Ritiene che in India manchi una presa di coscienza collettiva?
Vedo molto di più di questo divario. Limitatamente alle persone che frequento quando torno in India, noto che il gap, invece di accorciarsi, si sta allargando. Sono contenta della crescita di una classe media che si può permettere cose che prima erano impossibili e che il tenore di vita si sia alzato, ma a che prezzo? Vedo gente stressata, per cui i soldi sono diventati una fissazione. A Bombay e dintorni la prima domanda che ti fanno è: quanto guadagni? Vorrei invece che ti chiedessero, come stai? Sei felice? In passato questo succedeva di più, i tempi erano dilatati, meno frenetici.

Tutto ciò, poi, non si traduce in emancipazione per le donne…
Il ruolo della donna è schiacciato da questa «libertà di lavorare», che forse è anche un’arma a doppio taglio: non si è liberata del giogo di tutto ciò che comunque deve fare per adempiere ai propri «doveri». Si aggiunga anche che alla «libertà» di lavorare non segue maggior rispetto per le donne. Manca dall’alto, dalla politica, che ha sdoganato l’idea che a una donna può venir fatto di tutto. Qualche decennio fa non era così, c’era molto più rispetto. Se leggo le statistiche sugli stupri, oggi in India il peggioramento è evidente. Ma ancora, mi chiedo: siamo di fronte a un peggioramento o sono fatti che sono sempre successi e solo ora vengono alla luce? È una domanda a cui non so rispondere. In India permane un’enorme contraddizione: è un paese che avuto per molti anni una premier (Indira Gandhi, ndr) e continua ad avere ancora oggi una leader politica di primo piano, di origini straniere e cattolica (Sonia Gandhi, ndr). Eppure, la condizione della donna semplice è completamente diversa.

Il libro è disseminato di piccoli «debunking» dell’India immaginata, smontando idee preconcette appartenenti all’immaginario collettivo italiano. Quale, secondo lei, è il fraintendimento più grande?
È questa rappresentazione dell’India come un paese molto pacifico, spirituale e mite. L’India non provoca nessuna paura nell’immaginario collettivo, incute timore molto più un paese musulmano. La società indiana, invece, sa anche essere assai violenta. Se ami profondamente un luogo, bisogna mostrare pure i suoi orrori. Se si sta lì a edulcorare qualsiasi cosa accada e a raccontare che è sempre tutto favoloso, alla fine non fai proprio nessun favore a quello stesso paese.