Nicola Zingaretti non ha mai preso sotto gamba la potenza di fuoco dei 5 Stelle sul web, anche se appena un anno fa, quando la piattaforma Rousseau fu multata dal garante della privacy, la definiva «strana», «opaca» e «fragile». Ieri è proprio da lì che è arrivato l’annuncio della «nuova era» per dirla alla Di Maio, o della «evoluzione della situazione politica» per dirla alla Zingaretti. Parole più sorvegliate ma non meno impegnative. Perché nessuno dei protagonisti crede che il via libera della «base» grillina alle alleanze locali (approvate, in realtà, da appena un quarto degli iscritti) riguardi solo le città o le regioni. Anzi, Zingaretti lo rivendica con chiarezza: «Sin da agosto 2019 ho sempre detto che si governa da alleati e non da avversari. Se questa alleanza è più unita è un bene, vorrà dire meno polemiche, meno sgambetti, più concretezza. È un fatto positivo anche per il governo».

L’ultima frase è indirizzata al presidente del Consiglio. Conte tifa almeno quanto Zingaretti per la «alleanza strategica», ma fin qui ha approfittato di essere l’anello di congiunzione tra due mondi distanti. Adesso teme che il patto della «nuova era» venga firmato sopra la sua testa. Il segretario del Pd richiama il presidente del Consiglio alle sue responsabilità, sa che da qui a un mese i 5 Stelle avranno almeno un trofeo con il quale fare ombra a un (prevedibilmente non buono) risultato delle regionali: la vittoria dei sì al referendum sul taglio del parlamento. Il Pd non potrà mai pienamente rivendicare il risultato e allora Zingaretti ha bisogno di segnare un punto sul fronte del «riequilibrio»: la legge elettorale. «Il tema lo abbiamo posto noi, ma oggi è un punto del programma di governo – ricorda il segretario – se non ce la facciamo quindi è un problema di tutta la maggioranza che ha preso un impegno e non riesce a mantenerlo. Ma credo che si farà di tutto». Il leader del Pd sta cercando di far capire a tutti gli alleati che il suo partito ha bisogno di portare a casa qualcosa, anche solo un voto in commissione sulla nuova legge elettorale o magari un passo in avanti delle altre riforme «compensative» del taglio dei parlamentari. Si aspetta una mano anche da Renzi, che pure è stato l’autore del sabotaggio sul proporzionale: «Le sue ultime dichiarazioni sono in gran parte condivisibili, aiutano ad abbassare le polemiche».

Eppure, per quanto sia complicato e carico di rischi per il Pd dove si va compattando un fronte per il no, non sarà il tema delle riforme il problema più grande, l’ostacolo sulla strada della «nuova era» Pd-5 Stelle che Zingaretti aveva prefigurato un anno fa. È Roma la nota stonata nella serenata giallo-rossa. Il Pd non potrà mai sostenere Virginia Raggi ance se al momento, per rispondere al passo in avanti della sindaca, non ha in mente nulla di diverso da un rinvio della decisione. «Credo siano stati cinque anni devastanti per la città – chiude il discorso Zingaretti – per quanto riguarda noi i candidati alle amministrative 2021 si decidono dopo le amministrative 2020, c’è voglia di pensare ai contenuti e poi di arrivare a una personalità che interpreti il cuore di Roma». Nel percorso tratteggiato dal segretario non c’è traccia delle primarie.
Ricordando che lui non ritira le sue querele ai grillini – come ha fatto il Pd, dopo che le aveva promosse proprio l’ex segretario – Renzi coltiva la sua nicchia di consenso e ribadisce la «differenza genetica» di Iv dai 5 Stelle. Zingaretti deve affrontare qualche malumore interno, a dargli voce da un parte Giorgio Gori, dall’altra Matteo Orfini. Distanti nella geografia del Pd ma uniti dal no al referendum costituzionale. Gori giudica malissimo la piattaforma Rousseau («non dico cosa penso di queste consultazioni») eppure sottolinea che «almeno M5S ha fatto finta di chiedere alla base cosa ne pensasse». «Le alleanze si decidono in base a progetti, programmi e cultura politica – dice Orfini – non con un improbabile sondaggio il 14 agosto su una piattaforma della Casaleggio».

Ma stavolta Zingaretti può rivendicare che sono stati i grillini a seguirlo, abbandonando la linea isolazionista. Peccato che di questa «nuova era» esista uno sfortunato precedente, immortalato dalla celebre «foto di Narni» che alle scorse elezioni regionali in Umbria vide assieme Conte, Zingaretti, Di Maio e Speranza. Quando manca un mese alle prossime elezioni, con il Pd in affanno in tre regioni su quattro di quelle dove oggi governa, è bene ricordare come andò a finire.