Due giorni fa a Urumqi, capoluogo della regione autonoma dello Xinjiang, è iniziato il processo contro Ilham Tohti, professore all’università delle minoranze di Pechino, accusato di «separatismo». La notizia è un indicatore molto negativo: le lezioni di Tohti costituivano un esempio di come si potesse essere critici nei confronti delle politiche di «integrazione» di Pechino, pur rimanendo all’interno di richieste di cambiamenti da effettuare all’interno del frame politico attuale.

Il fatto che Tohti rischi dieci anni di carcere, inoltre, sembra essere passato completamente sotto silenzio in Occidente. Non a caso Pechino ha scelto il momento giusto per processarlo: l’Occidente associa la parola «Islam» a «Isis» e quindi non c’era momento migliore per perseguitare un professore universitario, considerato per altro un moderato, per dare un segnale forte alla minoranza musulmana della regione nord occidentale. Il controllo delle periferie, è una paranoia costante della dirigenza.

La Cina da anni cerca una sorta di riconoscimento internazionale al pericolo «terrorismo uighuro».

E sa bene che se per il Dalai Lama si mobilitano in tanti, per un professore uighuro, l’attenzione sarà minima.