«E’ tempo di chiusura nei giardini d’Occidente e d’ora in poi un artista sarà giudicato solo per la risonanza della sua solitudine o per la qualità della sua disperazione» – scriveva Cyril Connolly nell’ultimo numero di Horizon del 1950. La generazione precedente alla seconda guerra mondiale, i raffinati cultori della bella scrittura, della rêverie, dell’io melanconico, mal si adattava al nuovo clima dell’Inghilterra laburista. I barbari erano alle porte e irrompevano in gruppi, disordinati ma decisi a dare battaglia contro la vecchia élite di età e di censo. Look back in anger, titolo del dramma di un giovane sconosciuto John Osborne, che debuttò al Royal Court Theatre nel 1956, fu il primo squillo di tromba per i «giovani arrabbiati», nati prodigiosamente, come i denti del drago, dalle riforme che il governo di Attlee aveva introdotto nel 1945: servizio sanitario nazionale, assegni familiari, istruzione superiore e universitaria gratuita.

Arrabbiati senza classe
I giovani del proletariato e della piccola media borghesia che riuscivano ad emergere nel complesso sistema educativo pubblico, divennero gli uomini «nuovi», gli intellettuali e gli artisti che tanta parte ebbero nella creazione del decennio più inglese del secolo, gli anni sessanta della «swinging London». Imperversava una cultura giovanile comune, permissiva, progressista che scavalcava le tradizionali divisioni di classe. I poeti di New Lines (del 1956) e New Poems (del 1957) erano docenti nelle nuove università o bibliotecari. Manganelli ne parlò alla radio: «… questi poeti sanno scrivere, sanno maneggiare versi e parole, hanno una certa eleganza dimessa e segreta, sono colmi di sincero pathos morale, usano metafore caute, talora allegorizzano. Questa maniera sommessa è capace di raggiungere risultati assai alti»: era il caso di Larkin, Hughes, Jennings. Ma le polemiche e le accuse non mancarono. Il nostro anglista più illustre, Mario Praz, nella sua Storia della letteratura inglese, sparò a zero: «… una banda di arrabbiati, mancanti di ogni riguardo, ha di nuovo spalancato le finestre e ha cominciato a far piovere giù tutti i mobili di casa … Sono usciti dall’università come da un sogno e, lungi dall’assimilarsi o dal sentire riconoscenza per la società che li ha così favoriti, son divenuti degli spostati».

I precoci romanzieri a volte esibivano un linguaggio volutamente demotico, irrispettoso, un atteggiamento implicitamente aggressivo. Un caso esemplare è Colin Wilson, operaio autodidatta, giovane autore di un libro di successo L’outsider; un altro caso interessante è l’appena uscita autobiografia del suo coetaneo, David Lodge, classe 1935, Un buon momento per nascere (traduzione di Mary Gislon e Rosetta Palazzi Bompiani pp. 494, € 29,00).
Lodge è già conosciuto da noi soprattutto per il suo malizioso romanzo, Il professore va al congresso, pubblicato nel 1990 da Bompiani come anche il resto della sua opera, tutta nel segno dello humour inglese della scuola di Jerome e Wodhouse, ma giocato a spese della nuova realtà sociale. La sua autobiografia non è divertente come ci si aspetterebbe, ma apre uno spiraglio sul misterioso codice che regola le differenze di classe e le conseguenti scelte politiche, cancellate sulle carte ma vive nelle coscienze, inafferrabili per i non inglesi ma sempre in vigore nei confronti di tutti coloro che calcano, anche se per poco, il suolo di questi isolani permalosi.

8 ottobre p 2 LODGE
La famiglia di Lodge era povera, ma di aspirazioni borghesi; lui, figlio unico, nel nuovo ordine scolastico avanza imperterrito per i suoi meriti; finita l’università torna all’università come docente nel dipartimento di inglese, e vi resterà per tutta la vita. È parsimonioso, cattolico, casto, intimamente conservatore. L’osservanza del rituale cattolico nei paesi protestanti è un forte segno identitario che dà sicurezza, stile morale, e una cerchia di amici solidali: di questo il giovane Lodge è consapevole e se ne avvale. Ci interessa poco quel che racconta di sé, ma molto la sua formazione intellettuale, i luoghi dove è cresciuto: l’ antica sala di lettura del British Museum, il dipartimento di letteratura inglese di cui gli anglisti stranieri spesso non conoscono la curiosa storia.

Vera materia romanzesca è il come e il quando i libri degli scrittori inglesi diventarono materia di studio. Per secoli furono ignorati anche dalle due grandi università, Oxford e Cambridge (Oxcam), e le loro opere lasciate alla lettura ingenua di lettori e lettrici, alle biblioteche circolanti, alle prime case editrici che inventarono romanzi in tre o sei volumi. Benché l’interesse fosse vivo, era considerata materia troppo familiare, indegna di entrare negli studi umanistici alla pari con letteratura greca e latina. Solo nel 1917 Cambridge offrì una laurea in letteratura inglese, iniziando con Chaucer e corsi specifici per teatro e critica allo scopo di arricchire la pratica semplicistica della lettura tradizionale. Lodge che si era iscritto all’UCL di Londra, «l’università dei miscredenti» come era soprannominata poiché accoglieva gli studenti non di fede anglicana ai quali era proibito l’accesso a Oxcam, si trovò ad affrontare anche la letteratura anglosassone, la paleografia, lo studio storico della scrittura, la bibliografia, la stampa e la rilegatura. La letteratura inglese moderna fu aggiunta più tardi su richiesta degli studenti. Gli esami erano difficili e male organizzati, ma li superò brillantemente. I suoi autori preferiti erano Newman, Graham Green, Joyce … e frequentava il teatro dei nuovi «arrabbiati».

Da studente a insegnante
Negli anni sessanta cominciò a scrivere romanzi che ottennero un discreto successo. Più tardi si convertì allo strutturalismo, e sempre alla sua maniera cauta, cominciò a scrivere di teoria del romanzo. Insegnava nel dipartimento di inglese a Birmingham, quando irruppero i Cultural Studies per iniziativa di Richard Hoggart e Stuart Hall, un energico contributo innovativo alla critica del testo che in Italia conoscemmo per la mediazione di Fernando Ferrara dell’Università Orientale di Napoli. Il professor Lodge ne salutò con sollievo la fase discendente, e volò a Berkeley per uno scambio tra colleghi.
Il caso vuole che a scrivere una lunga recensione alla sua autobiografia sia stato un ironico collaboratore del Guardian (16 gennaio 2015), DJ Taylor, esperto di analisi culturale, che elenca con evidente divertimento i tanti passi falsi dell’autore – da dimenticare ma non perdonare, e conclude: «Gli Uomini Nuovi, naturalmente, diventano uomini vecchi, e in quanto reportage dell’ultimo quarto del ventesimo secolo inglese, questa autobiografia è il paradiso di un sociologo».