Ben lontano dai trionfalismi autarchici e individualisti pre-Trump di «Capitano, mio capitano!», ma anche dalle più serie ricerche sul «campo» di Diario di un maestro (1973) del grande Vittorio De Seta e di La mia classe (2013) di Daniele Gaglianone, il francese Les grands esprits (nelle sale italiane con il titolo Il professore cambia scuola) è la nuova avventura nella galassia sconosciuta insegnante-allievo: doppiamente sconosciuta se periferica, popolata di figli d’immigrazione e emarginazione. Nella banlieue più estrema, cellula aliena della metropoli, che Mathieu Kassovitz aveva radiografato nel b/n nebbioso di La haine, capita da bravo esploratore sbagliato, e impreparato, un super-professore urbano, ministerialmente estratto a mo’ di cavia pedagogica da uno dei licei più esclusivi di Parigi, dove classe significa classe alta

Scontro classico e prevedibile, con prevedibili vincitori e vinti, dove l’enseignant gâté, maestro di scuola ma non di vita, è costretto, per sopravvivere e se, possibile, adempiere alla sua missione educativa, a rifarsi una pelle didattica, rimettendo in discussione metodi forse validi per una società ideale o, meglio, immobile: il titolo italiano sarebbe perciò potuto essere «Il professore torna a scuola».
Il regista, Olivier Ayache-Vidal, 50 anni, al suo primo lungometraggio di fiction, dopo una serie di corti, assicura di avere «studiato»: «Ho visitato scuole tecniche e professionali, incontrato insegnanti e associazioni, rendendomi conto che sono le scuole superiori, cerniera tra l’infanzia e l’età adulta, a scatenare i maggiori problemi. Per osservare questo universo così complesso, ho vissuto per più di due anni al ritmo di 500 studenti e 40 professori dell’istituto Maurice Thorez de Stains. Il preside mi ha dato accesso a aule, consigli di classe, sala insegnanti, incontri pedagogici, per farmi conoscere il più possibile la loro realtà».

Denis Podalydès, il «prof», conferma: «Sono entrato nel film quando il regista aveva già preparato il terreno, scegliendo ambienti e situazioni e lavorando con gli studenti, poi attori della storia: tutti non professionisti», a tu per tu con professionisti nei ruoli adulti, come la bella attrice d’origine marocchina Zineb Triki, giovane e luminosa insegnante di cui si innamora Podalydès.

Incontrato ai recenti «Rendez-vous» di Unifrance, dove è arrivato ‘da studente» – casco per la moto (forse la stessa servita per la sua incursione d’avvocato in Omar m’a tuer) e un librone in via di consumo (Du bruit et de la fureur di Faulkner) –, spesso protagonista nei film del fratello Bruno, come il negletto ma delizioso Bécassine, noto Oltralpe per le sue interpretazioni nell’ultimo Resnais (Vous n’avez encore rien vu) e in alcuni film italiani, da Il primo uomo di Amelio a Caos calmo di Grimaldi, a È più facile per un cammello… di Valeria Bruni Tedeschi, l’attore, 56 anni il prossimo 22 aprile, non tarda a zigzagare nel suo mondo prediletto: i libri. Quelli letti (anche a voce alta, in preziose collane d’audiolibri, da Baudelaire a Proust), quelli scritti, come il romanzo Fuir Pénéloppe del 2014 («tutti corrono verso Penelope, incluso Ulisse, che se la prende un po’ comoda: io l’ho caricata di forza centrifuga») o Voix off (2008), sempre edito da Mercure de France, libro+cd, macedonia di voci, di famiglia o degli attori che l’han più suggestionato. E magari qualche saggetto, come nel 2010 Molière è Truffaut, Racine è Godard: «Ogni epoca vive di contrapposizioni, Coppi-Bartali, Callas-Tebaldi… io ne ho usata una di oggi per spiegarne una di ieri».
Con Podalydès si torna a scuola, come nel film in cui raccoglie l’impegnativa eredità di cine-insegnante di Bruno Cirino, alle prese con gli emarginati di Diario d’un maestro, e di Valerio Mastandrea, circondato dagli immigrati di La mia classe.

Attore della Comédie Française sprofondato in una scuola dell’ultima banlieue: come si è trovato ?
Benissimo. Sono felice d’essere stato costretto a questo spaesamento. È stata una esperienza umana unica. Quei ragazzi, che mi trovavo intorno ogni giorno in classe, che poi era il set, sono stati i protagonisti quotidiani d’una mutazione «a vista». Li ho ritrovati un anno dopo, alle anteprime: eran tutti cambiati. Ma già durante le riprese, settimana dopo settimana, giorno dopo giorno, il loro carattere, non solo il loro fisico, si mostrava via via diverso.

Il suo personaggio ha invece attraversato un incubo.
Precipita per un concorso di circostanze in una situazione che nella vita reale non si produrrebbe mai. Viene da un milieu borghese, accademico, ma dietro le sicurezze esibite è una persona fragile, sola. Vede quella prova come uno scivolone, un declassamento. L’idea buona che lo salva è di accanirsi a trovare un’altra strada, rispetto a quella da lui consolidata, per entrare in comunicazione con i nuovi allievi, dopo lo scontro frontale iniziale, per lui catastrofico.

Lei ne ha tratto qualche insegnamento?
Il primo è che il sapere non si può imporre. «Ti ordino di imparare» è una solenne idiozia, come «Ti ordino di amare». Bisogna mettere in condizione di apprezzare, di desiderare: solo così, il sapere di cui si è portatori può aiutare gli altri a crescere. Come attore, una bella lezione l’ho ricevuta dai ragazzi, che ‘non si sono mai interpretati’ ma son sempre rimasti sé stessi: sono stato colpito dalla loro forte energia, inesauribile, fatta di humour, di insolenza, di provocazione, di sfida: «vediamo di che cosa sei capace».