Realizzato in cinque anni di lavoro, Belluscone. Una storia siciliana non denuncia le difficoltà finanziarie, i ripensamenti del regista, i capricci del caso e la precisione della sfiga che hanno tormentato la lavorazione. Come i classici hollywoodiani amati da Franco Maresco, il film fa in modo di nascondere le condizioni produttive che ne hanno permesso la realizzazione e offre allo spettatore un meccanismo perfettamente oliato, capace di organizzare al meglio i diversi piani narrativi e di suggerirne ulteriori, gestendo con disinvoltura formati diversi, salti di registro e cambi di focalizzazione narrativa.

Eppure, a tutta evidenza, si tratta del lavoro più personale del regista siciliano, addirittura un passo oltre l’intenso e dolorosissimo Tony Scott, presentato a Locarno e a qualche altro festival nel 2010 prima di essere condannato a ingiusto oblio. Se nel ritratto al jazzista italoamericano, Maresco orgogliosamente rivendicava affinità elettive con Scott e, di fronte all’impossibile identificazione, non esitava a piegare il film alla deriva esistenziale del suo protagonista, qui si impegna in un’operazione più sottile e sofisticata che passa attraverso un movimento di distanziamento che in novanta minuti viene lentamente e inesorabilmente eroso fino alla sua negazione finale.

Originariamente concepito come un’indagine sulle fortune siciliane di Berlusconi, il film svolge solo parzialmente il compito (non rinunciando peraltro a snocciolare verità impronunciabili fino a qualche anno fa) per passare bruscamente, come per un’imprevista e modernissima interferenza, alla storia di Ciccio Mira, improbabile impresario di neomelodici stretto tra le bizze dei suoi capricciosi cantanti e le pretese degli amici degli amici.
Le due linee proseguono in parallelo per l’intero film e, offrendosi l’una a specchio deformato dell’altra, connettono il dato politico-giudiziario e quello socio-culturale. A garantire la tenuta dell’insieme è l’indagine di Tatti Sanguineti che, arrivato da Milano, si mette sulle tracce dell’amico regista alla ricerca, vana, delle ragioni della sua latitanza.

Come il giornalista Thompson in Quarto Potere, Sanguineti corteggia senza soddisfare mai fino in fondo l’ansia di conoscenza dello spettatore e nel frattempo gli snocciola una serie di informazioni preziose, per quanto talvolta lievemente inattendibili, sulla lavorazione del film e i suoi, spesso esilaranti, incidenti. Il processo conta più dell’obbiettivo, il film ha modo di dispiegare la sua dimensione autoriflessiva, ma anche questa in fondo si rivela una pista falsa, o quasi. Più di quanto dicono le immagini, in Belluscone conta quanto si può intuire tra le immagini, quanto si può capire interrogando i vuoti strategicamente collocati al centro della sovrabbondante architettura del film.

L’angoscia indissolubilmente connessa alla creazione artistica, la difficoltà di concludere un lavoro quasi finito, la tentazione di lasciare scivolare via qualcosa cui si tiene più della vita sono fatte intuire per differenza, tenendo un’inquadratura quel tanto in più che basta per esprimere un affetto imprevisto o semplicemente frustrando, ma solo lievemente, le attese dello spettatore.

All’esibizione della soggettività del moderno cinema in prima persona, Maresco preferisce la misura del cinema classico e si mette a nudo nascondendosi, celando l’evidenza dei fatti per farne risaltare il sentimento autentico. E così, senza mai metterla giù dura, ci colpisce e ci emoziona profondamente, più di quanto non aveva mai fatto in venticinque anni di cinema. Un film imperdibile.