«Non ho mai voluto che il film fosse sul 1968, che fosse un esercizio di nostalgia o una lezione di storia. L’ho sempre inteso come un film sul presente. Quello che non sapevo è quanto il presente sarebbe stato come il 1968». Così Aaron Sorkin descrive all’«Hollywood Reporter» il suo nuovo film, The Trial of the Chicago 7 – il mantra del «film sul presente», e per il presente, così fondante che – qualche mese fa, con la prospettiva della riapertura delle sale in Usa sempre più buia e il distributore Paramount che non garantiva una data d’uscita in autunno – The Trial of the Chicago 7 è stato «rilevato» da Netflix. Da Fred Wiseman (con City Hall) a Alex Gibney (con Agents of Chaos, su Russia ed elezioni Usa, già su Hbo, e con Totally Under Control, su Trump e pandemia, in uscita a ottobre), al film in due puntate sull’ex direttore dell’Fbi James Comey, diretto da Billy Ray per Showtime, The Comey Rule, al documentario All in the Fight di Liz Garbus sulla repressione del voto, la quantità di contenuti a sfondo della politica contemporanea che sperano di raggiungere gli schermi americani prima delle elezioni del 3 novembre è altissima.

TRA TUTTE le proposte, la seconda regia di Sorkin dopo Molly’s Game è quella più tradizionalmente hollywoodiana (non a caso la sceneggiatura è stata per anni nelle mani di Spielberg, che però poi ha preferito The Post). Grande cast, valori di produzione da studio e un film radicato nella tradizione del dramma giudiziario che ben si sposa con la vocazione ai virtuosismi oratori dei copioni di Sorkin (autore anche di A Few Good Men), Il processo ai Chicago 7 (titolo italiano), apre con un montaggio di immagini che dichiarano subito il cortocircuito con il presente – poliziotti in riot gear, armati di lacrimogeni e manganelli che si scontrano contro una folla di manifestanti fatta in gran parte di giovani, di tutte le razze. Non è Minneapolis, Portland, Seattle o New York (le ultime tre definite ufficialmente «città anarchiche» da Trump qualche giorno fa) ma Chicago. Non è l’estate 2020 ma quella del 1968, poco dopo gli omicidi di Martin Luther King e Bobby Kennedy. Non è la convenzione via zoom inscenata dal partito democratico l’agosto scorso ma quella molto in carne e d’ossa di 52 anni fa, dove migliaia di giovani confluirono per protestare contro la guerra in Vietnam, incarnata dal vice di Lyndon Johnson e candidato democratico alla presidenza, Hubert Humphrey.

DA QUEGLI scontri durati giorni, dopo il passaggio di consegne da Johnson a Nixon, la nuova amministrazione repubblicana estrasse un processo «esemplare» – non importa se gli scontri erano stati provocati dalla polizia e dalla sciocca decisione del sindaco (democratico) di Chicago di non rilasciare permessi ai manifestanti. Al banco degli imputati, non erano infatti solo Tom Hyden (Eddie Redmayne nel film di Sorkin), Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), Jerry Rubin (Jeremy Strong), Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen), David Delliger (John Carrol Lynch), Rennie Davis (Alex Sharp), John Froiner (Daniel Flaherty) e Lee Weiner (Noah Robbins), incriminati con vari capi d’imputazione per complotto e incitamento alla rivolta, ma l’intera sinistra della controcultura – in uno spettro che andava dall’attivismo più moderato degli Students for a Democratic Society (Hyden) e del National Mobilizaton Committee to End the War (Dillinger) a quello più fiammeggiante e iconoclasta degli Yippies (Hoffman e Rubin), alle Black Panthers (Seale, a Chicago solo per poche ore e non parte degli scontri venne incriminato comunque, ma un certo punto fu escluso dal processo). Anarchici, violenti, comunisti, dissacratori dei valori tradizionali che hanno reso grande l’America e su cui posa la sua identità, gli aggettivi usati dall’accusa (Joseph Gordon Levitt è il procuratore rampante ma non privo di coscienza Richard Schutzland) per descrivere gli imputati, dal nixoniano ministro della giustizia che ha fomentato il caso, e riflessi nelle decisioni chiaramente di parte del giudice Hoffman (un grande Frank Langella, con gli occhi animati di disprezzo) sono gli stessi che Trump usa per descrivere i democratici made in 2020 – facendo un tutt’uno del ticket Biden/Harris, con Black Lives Matter , Alexandria Ocasio Cortez, «l’invasione degli immigrati illegali», «il virus cinese» e «crooked Hillary».

NEI SUOI PARALLELI tra l’allora e l’oggi, Sorkin lavora invece proprio sulle differenze tra l’ala più diplomatica, pragmatica degli imputati (e quindi dell’odierno partito democratico), incarnata da Hyden e dai suoi, e quella rivoluzionaria di Hoffman e Strong (le cui interpretazioni, insieme a quella di Mark Rylance, nei panni del leggendario difensore William Kunstler sono le migliori del film), riflessa oggi nelle manifestazioni e nell’ala Warren/Sanders/Ocasio Cortez dei «Dems». Sceneggiatura tratta in gran parte dai transcript del processo, il film di Sorkin, ha il suo cuore nell’aula del tribunale. Le battute che si susseguono in un ping-pong serratissimo, con un gioco di parti così preciso da risultare più schematico che avvincente.

TRA LE RIGHE, il miraggio che le parole possano controllare/spiegare il caos. Anche quello odierno… il che non è vero. In questo senso The Trial of the Chicago 7 è vittima di un didatticismo che «riduce» altre pur interessanti recenti rivisitazioni di protagonisti dei Sixties, come Seberg e One Night in Miami. Paradossalmente, infatti, il film che recentemente mi è sembrato più rilevante sull’America – e la sinistra- del momento è un film del 1990, Route One /USA di Robert Kramer, da poco restaurato e riproposto in chiave virtuale.