Emoziona molto vedere Carlo Cecchi in palcoscenico, come avviene ormai con pochissimi attori sulla scena. Nelle due brevi commedie di Eduardo che lui porta in scena, succede qualcosa di molto raro. Si sentono subito lo spirito e lo spessore della creatività eduardiana, ma con un rigore, una precisione di «mira», e una ricchezza che ce li rendono assolutamente familiari e contemporanei. Che non è una cosa facile né semplice: proprio in questi giorni va in onda il miniciclo di tre commedie di De Filippo su Rai1, ed è immediata la sensazione di «artificio», e forse anche di improbabilità, che quei testi vanno ad assumere in un ammodernamento tutto esteriore, fatto di cosmetici e abiti su pose piuttosto manierate, del genere appunto fiction tv.

CARLO CECCHI con Eduardo ha iniziato la propria storia di attore (come Angelica Ippolito, con cui infatti funziona la strepitosa intesa artistica di oggi), ma è poi passato a ricercare in una nuova teatralità tutta propria. Nelle cantine romane (o anche nelle periferie di Pietralata) ha reinventato pietre miliari del teatro come Woyzeck , e lo scandalo della nuova drammaturgia. Su grande palcoscenico ha realizzato i più ambigui e crudeli (e davvero pinteriani) spettacoli del premio Nobel inglese, che si siano mai visti in Italia. E poi Shakespeare, di cui ha elaborato un codice contemporaneo ancora valido per i suoi allievi che oggi continuano a cimentarvisi. E poi la drammaturgia di oggi (quella inglese che conosce meglio di chiunque), e la grande tradizione, a cominciare dai Pirandelli smontati e rimontati col bisturi della sensibilità contemporanea, dallo storico L’uomo, la bestia e la virtù fino al recente Enrico IV, «destrutturato» e irresistibile, dove si individuano senza pietà vezzi e debolezze del teatro corrente sui palcoscenici oggi.

ORA QUELLA METÀ del novecento che Eduardo ha divulgato e rivestito, partendo dalla lezione paterna di Scarpetta, Cecchi la reinventa con la finzione (essenza del teatro) e lo spara in faccia al pubblico, con tutto il garbo e la souplesse del caso. E il pubblico ride e si diverte, e senza acorgersene entra in una visione, e dimensione, ulteriore del teatro. Che cattura facendo ridere, ma in quello stesso momento scopre gli altarini della nostra convivenza. E scopre, finalmente il «grande attore», non nel senso corrente della vanagloria dei piccoli divi (soidisants) ma nella riconoscibilità e identificazione che lo spettatore traghetta. Una sorta di intervento chirurgico (indolore, anzi molto piacevole) che mette a nudo valori fasulli e convenzioni acclarate, che l’attore, quello vero, ci illumina, meglio di un indottrinamento politico o di una seduta dall’analista.
Un attore come Cecchi insomma (e quasi solo lui) è in grado di restituisce al suo «mestiere» una funzione sociale e, certo in senso lato, «politica». Ridere dei propri riti e convenzioni, credenze e abitudini, attraverso lo specchio deformato di un circo di provincia o di un lutto artificioso, serve a essere più consapevoli, e l’artificio teatrale, ben costruito e disposto in scena, rende all’attore la funzione antica per cui il teatro era nato. Senza citazioni in greco o latino, ma anche solo nella consapevolezza che, a differenza dei comici degli show di seconda serata, siamo tutti Sik Sik, e anche il suo ingenuo spettatore.