«Se bene lo ozio solo non fa ghiribizzi, pure male si fanno e’ ghiribizzi sanza ozio»: con un guizzo, nel 1528, Francesco Guicciardini apriva i Ricordi, il suo frammentario libro dell’inquietudine. L’incertezza dinanzi alla mutazione e al disordine inarrestabili del reale e dell’interiorità oscillante (dirà poco più tardi Michel de Montaigne) «in un perenne altalenare», imperversano in quei fulminanti aforismi di incredibile modernità: «In effetto gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità»; «Le cose al fine si scaricano sopra e’ più deboli, perché non si misurano né con la ragione, né con la discrezione».
Con il suo amico Machiavelli, Guicciardini è fra i nostri primi e più alti antropologi della storia collettiva e delle emozioni individuali. I Ricordi, accanto alla Storia d’Italia, sono un sensibile pantografo che registra le percezioni del Soggetto di fronte alle Cose e ai Fatti del mondo e, per questa via, riconosce in sé e negli altri un «sostrato culturale» comune, l’italianità. «Accanto al modo dell’esperienza, e spesso intrecciato con esso, s’affaccia nei Ricordi il modo dell’“io”», suggeriva Alberto Asor Rosa in un saggio innovativo su Guicciardini apparso nella Letteratura italiana Einaudi da lui diretta, e ripreso nel 1997 in Genus italicum. In quel libro Asor Rosa svolse una notevole riflessione sulle «forme letterarie italiane nel tempo», individuandovi «una grande costante del carattere nazionale», il «pessimismo italiano», che «dal momento della prima, grande crisi (Guicciardini, e poi Sarpi), arriva pressoché ininterrottamente fino ai nostri giorni, attraverso una catena di crisi».

ANCHE MACHIAVELLI, in una famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, definì «ghiribizzo» il trattato De principatibus che stava componendo («e se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo, questo non vi dovrebbe dispiacere»). Come può un’opera complessa, articolata, analitica qual è Il Principe, venir paragonato a un capriccioso arzigogolo mentale, a un “improvviso” della mente e del corpo che a esso reagisce? Alberto Asor Rosa iscrive il suo nuovo studio (Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, Einaudi, pp. 281, euro 28) sotto questa duplice impresa emblematica, finora mai illuminata con tanta acutezza: la compresenza del «ghiribizare» e del «discorrer con ragione», nello sforzo di «far funzionare contemporaneamente, o quasi, i due volti dell’operare intellettuale, e cioè la “fantasia” e la “ragione”, l’“immaginazione” e l’“intelletto”».

Asor Rosa porta alla luce in Machiavelli, rileggendo Il Principe e numerose lettere, «il nesso (…) fra atteggiamenti e scelte intellettuali e politiche e la sua disposizione umana, perfettamente umana, a collegare il sopra e il sotto, il celebrale e il fisico, il corpo e la mente». Non stupisce che, scrivendo proprio a Guicciardini, alla fine dell’ottobre 1525 e sigillando così «una grande amicizia “in articulo mortis”», l’autore del più geniale trattato di politica dell’età moderna, rimasto inerte per vent’anni (fu edito postumo a Roma, da Antonio Blado, nel gennaio 1532), si definisse «Niccolò Machiavelli, istorico, comico e tragico». «Solo un genio», commenta Asor Rosa, «poteva condensare in una sintesi epigrafica così concentrata e veritiera, il senso di un’intera esistenza»: ma anche di una generazione, che dopo la morte di Lorenzo de’ Medici vede sfumare nella tragedia del Sacco di Roma, il quale è anche una grottesca farsa politica, «la sola alternativa possibile ed efficace allo strapotere delle armi straniere, “barbariche”», e l’unificazione della nazione-Italia in quella curia unitaria che già Dante aveva utopizzato.
Questo nuovo libro di Asor Rosa si radica in una ricerca più che ventennale, mostrando viva sensibilità anche per l’urgenza della «disfatta» che la democrazia italiana e occidentale sta vivendo. Con senso dell’armonia l’autore lo ha sinfonicamente architettato in due momenti fondamentali, intrecciati in un elegante arazzo unitario. Anzitutto c’è la storia secolare del lucido progetto di una possibile identità d’Italia, basata sulla sua superiore cultura; in parallelo, il «resoconto» amaro e disincantato di «una “grande catastrofe” di lunga durata», della quale Machiavelli e Guicciardini furono testimoni e attivi antagonisti, con origini e ruoli molto diversi: Machiavelli un «intellettuale emarginato e dalla provenienza sociale medio-bassa», un «reietto», e Guicciardini un «aristocratico, nella fase della sua più trionfante affermazione».

I DUE ECCEZIONALI pensatori della politica, che vivono negli anni di Michelangelo e Ariosto, di Aretino e di Raffaello, di Bembo e di Tiziano, «decidono di non limitarsi ad analizzare quella realtà», quella «grande catastrofe» che si spalanca sotto lo splendore culturale italiano, «ma di tentare di morderla per cambiarla». In questa dimensione Machiavelli e Guicciardini interpretano un ruolo paradigmatico, metastorico, che nel caso del primo mi spingerei a definire mitografico, e in una certa impensata prospettiva addirittura messianico, quando invoca «uno nuovo principe» che sia radicalmente «uno principe nuovo», in grado di cogliere l’occasione, «acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore». «Tutte le volte in cui il pensiero», commenta Asor Rosa, «“si sbilancia” ad agganciarsi a qualche aspetto del reale, con l’intento di modificarne il complesso, affronta il rischio di una spedizione nell’ignoto (il reale è sempre più complicato del pensiero)».

È APPUNTO nell’analisi micro/macroscopica dell’«intreccio tra vita e morte, tra successo e sconfitta», che Asor Rosa rivela la sua natura profonda di sottile antropologo e di moralista, nel senso più alto del termine, che lo accosta spiritualmente e politicamente agli scrittori oggetto della sua ricerca. Il centro del libro è qui, nella profonda meditazione intorno all’«eterna duplicità, e alternanza, delle sorti umane», forze che «regolano anche i comportamenti quotidiani, e al tempo stesso il loro raffrontarsi, e misurarsi, talvolta enigmatico, alla storia». Il problema in cui i grandi pensatori colgono l’incrinarsi di un’epistéme nel disfarsi dell’impianto politico-istituzionale di primo Cinquecento, è lo stesso che Dante, forse lo scrittore più vicino a Machiavelli, aveva posto esattamente al centro della Commedia, nel canto XVI del Purgatorio: «il rapporto fra libertà e necessità nell’agire umano, (…) carattere inconfondibile e permanente (finora?) della cosiddetta civiltà occidentale: estraneo inequivocabilmente, almeno in questa forma decisa e dirimente, a tutte le altre forme di civiltà umane. L’aspetto straordinario del discorso machiavelliano (…) è che Niccolò pone questo atteggiamento a fondamento del pensiero politico moderno».

QUANDO ESORTA i principi italiani a «“darsi da fare” prima che sia troppo tardi», Machiavelli, attraverso «un poderoso organismo pensante» capace di abbracciare una realtà estremamente composita fronteggia «l’approssimarsi della catastrofe» con «le forze del pensiero e della ragione», ma anche con la propria fisicità dolente e difettiva, nella certezza che «il pensiero non è spirito, è materia, al pari del corpo: ed esattamente come il corpo funziona e agisce».
Quella che con formula efficace Asor Rosa chiama la «“logica dilemmatica” di Machiavelli» risponde «a una dinamica della conoscenza e dell’azione, compiutamente e indefettibilmente materialistica». Anche nella solitudine degli ultimi anni di fallimento pubblico e privato Machiavelli «sprizza energia da tutti i pori», e continua a «ghiribizzare». Come un eroe culturale contrasta la decadenza italiana, riscattando con la forza del mito il sogno messianico di redenzione: fondare una nuova identità individuale e collettiva.