Era in piazza del Campidoglio, ieri pomeriggio. Insieme a migliaia di senzacasa come lui. Con il suo metro e novanta d’altezza, sotto un cappello di paglia, con quella barba bianca che scende dal mento come un rampicante, si stagliava elegante su tutti gli altri. Ma come tutti gli altri era in piazza a chiedere un tetto sopra la testa, un alloggio dove poter vivere: impugnando un cartello che s’era stampato da solo, in cui ricordava che Mazzini era venuto da Genova per liberare Roma dal servaggio papalino, augurandosi che un altro genovese, il sindaco Marino, s’impegni a fare altrettanto, liberando la città dal potere dei palazzinari.
Il principe Paolo. Così lo chiamano i suoi compagni di lotta. E principe lo è davvero. Ma a differenza degli altri nobili romani non possiede palazzi né ville né castelli: abita con la sua deliziosa figlia in un centro d’accoglienza per famiglie sfrattate, in via Campo Farnia, quartiere Capannelle, sotto il cono d’atterraggio dell’aeroporto di Ciampino.
Ma Paolo non è solo un combattente per il diritto alla casa. È anche un attore, seppure involontario. Tra i protagonisti del film che ha recentemente trionfato alla Mostra di Venezia, Sacro Gra. Forse il più intenso di tutti, il più inaspettato e il più coinvolgente, con quella sua tenera vecchiaia vissuta in dignitosa, anzi fiera, povertà.
Il regista Gianfranco Rosi ha trascorso mesi e mesi nel centro di Campo Farnia, filmando la quotidianità di Paolo e di sua figlia, come di tutte le altre famiglie ospitate, centotrentatre in tutto. Catturato da quella densità sociale, dalle mille storie concentrate in quell’edificio, dagli sguardi, dagli odori, dai pianti e dai sorrisi. Estraendone frammenti cinematografici potenti ma non retorici, toccanti ma non dolciastri, né stucchevoli, né indulgenti.
Ora il caso vuole che una politica frettolosa e si spera solo ignara abbia annunciato che quel centro verrà presto chiuso e le persone allontanate. La ragione è la solita, di questi tempi: il Comune ha intenzione di risparmiare il canone d’affitto che viene pagato per l’accoglienza, così da riversare parte di quelle risorse direttamente alle famiglie, attraverso un contributo mensile di settecento euro. Soldi che non solo non appaiono sufficienti per trovare una sistemazione sul mercato, ma che inoltre sarà difficile garantire nel futuro.
Sia detto per inciso, ma vale la pena ricordarlo, qui si parla di persone che vengono ospitate a spese del Comune perché ne hanno tutto il diritto, essendo titolari delle prerogative di legge per l’accesso all’alloggio popolare. Un diritto indiscutibile, dunque, che a Roma riguarda almeno cinquantamila famiglie, ma che da decenni non viene onorato perché nel nostro paese di case popolari non se ne fanno più.
Il centro di Campo Farnia venne realizzato nel 2008 dall’allora X Municipio, proprio per corrispondere, seppure in via temporanea, a tale diritto. Ma a differenza di altre esperienze analoghe, che spesso diventano dei ricoveri anonimi e passivizzanti (se non peggio), questo centro venne organizzato come un luogo di animazione sociale e di partecipazione gestionale degli stessi ospiti: non più soggetti indifferenziati e inerti ma direttamente coinvolti nella programmazione delle attività, nella manutenzione dello stabile, nel vivo insomma delle dinamiche comunitarie. E fu per questo che a sovrintendere e gestire venne chiamata una cooperativa sociale portatrice di un progetto di valorizzazione sociale, e non la solita, onnipresente confraternita, che al massimo svolge funzioni di portierato.
È per questo che il centro di Campo Farnia è oggi il modello d’accoglienza più avanzato a Roma, imitato e replicato in molte altre città d’Italia. In breve tempo è diventato il baricentro attivo dell’intero quartiere, dove si offrono servizi e si svolgono attività sociali e culturali, dove i bambini giocano e imparano, dove si organizzano feste, dove si presentano libri e si proiettano film. E da qualche mese è attivo anche un ambulatorio popolare (e gratuito), condotto da un gruppo di medici volontari, che ovviamente sta già scoppiando per l’eccesso di quella domanda sanitaria che le strutture pubbliche ormai respingono.
Forse è stata proprio quest’atmosfera serena e vivace, a coinvolgere Gianfranco Rosi nella sua ricerca documentaristica. Incontrare persone che pur nel loro disagio esprimevano un’intensità sentimentale così vitale, ha probabilmente toccato la sua sensibilità artistica.
Resta tuttavia il rischio che Campo Farnia debba essere smantellato e il principe Paolo nuovamente sfrattato. Anche perché, al di là del valore del suo progetto, il centro ha in qualche modo mancato il suo obiettivo politico. Non per responsabilità di chi l’ha promosso e gestito, certo. Ma era comunque stabilito che le famiglie ospitate, dopo due anni, avrebbero dovuto lasciar liberi gli alloggi e, in continuità, avere accesso a nuovi stabili di edilizia popolare. Cosa che con tutta evidenza non si è mai concretizzata. E la ragione è che il Comune, per tutti questi anni, non ha mai voluto né progettare né tanto meno realizzare, una nuova urbanistica pubblica per non creare concorrenzialità in un mercato immobiliare monopolizzato dai privati.
Ed è per questo che le famiglie di Campo Farnia, così come degli altri centri sparsi per Roma, restano per anni e anni nei loro miniappartamenti, gravando sensibilmente sulle casse comunali. Non diversamente dalle altre amministrazioni, la giunta Marino non sembra aver intenzione di riavviare una pianificazione abitativa pubblica. Preferisce chiudere i centri d’accoglienza e riversare parzialmente tali risparmi attraverso politiche elemosiniere, distribuendo assegni integrativi per l’affitto. Con il risultato che le risorse prima destinate ai canoni per l’accoglienza tornano nelle stesse tasche, cioè in quelle dei proprietari immobiliari, gli stessi o altri: ma non fa differenza.
Il peggio è che, così facendo, il mercato a Roma resta sostanzialmente inalterato, cioè inaccessibile sia per l’affitto che per la vendita; con la conseguenza di frustrare la straripante domanda abitativa e acutizzare ulteriormente l’emergenza sociale. Non sembra proprio una soluzione, rivela piuttosto l’intenzione di preservare in città gli attuali assetti del potere immobiliare (e finanziario).
Si potrebbe fare diversamente, se ci fosse una volontà politica meno compiacente e più coraggiosa. Per esempio, invece di redistribuirli a circuito chiuso, i risparmi ottenuti potrebbero essere utilizzati per acquisire consistenti mutui bancari o partecipare a progetti sociali di partenariato. Si creerebbero le condizioni, nel breve, per acquistare i tanti fabbricati privati vuoti e invenduti sparsi per la città per trasformarli in complessi di edilizia pubblica, e, nel medio periodo, finanziare la realizzazione di nuovi alloggi popolari e inoltre avviare programmi urbanistici di autocostruzione.
Ce ne sarebbe anche un’altra di possibilità. Più spericolata, ma di certo più efficace e, soprattutto, d’immediata attuazione. Quella di requisire anche solo una quota dello sterminato patrimonio edilizio inutilizzato che giace inerte in tutta la città, stimato ufficialmente in centosessantamila appartamenti. Tutti a Roma potrebbero avere una casa dove vivere. Anche il principe Paolo.