A prima vista sembra un semplice capannone agricolo come molti nelle campagne dell’Agro Pontino. Se non fosse per decine di vecchie biciclette ammucchiate le une sulle altre non si noterebbe nulla di strano. Entrando al suo interno invece si capisce che quello è un tempio indiano sikh. E si trova a borgo Hermada, nel Comune di Terracina in provincia di Latina.

Proprio in questo tempio, oggi Magistratura Democratica apre il suo XXII congresso nazionale con un’iniziativa dal titolo esplicito, «Dare diritti al lavoro», l’introduzione del suo presidente Riccardo De Vito e gli interventi dei braccianti indiani, dell’associazione Libera e della Flai Cgil. Decine di magistrati stringeranno le mani dei braccianti indiani per ribadire che, in questo Paese, il lavoro deve diventare una priorità a partire dalla difesa dei diritti che proteggono tutti i lavoratori e le lavoratrici dallo sfruttamento e dal caporalato.

L’iniziativa si terrà nello stesso tempio da cui, il 18 aprile del 2016, erano partiti pullman carichi di braccianti indiani per raggiungere piazza della Libertà – nome nomen – di Latina. Con la Flai Cgil, In Migrazione e la Comunità Indiana del Lazio fu organizzato il primo grande sciopero dei braccianti indiani con circa quattromila di loro che decisero di denunciare le condizioni di grave sfruttamento che vivono da decenni.

Ancora oggi, però, in queste campagne i braccianti indiani lavorano anche quattordici ore consecutive per retribuzioni che non superano i 600 euro e sono obbligati a chiamare padrone il loro datore di lavoro, a volte legato a doppio filo con la camorra o la ’ndrangheta.

D’altro canto il Sud Pontino, feudo del senatore Fazzone di Forza Italia, nella scorsa legislatura membro della Commissione Antimafia, ha visto compiersi la vergogna del mancato scioglimento del Comune di Fondi per condizionamento delle mafie nonostante l’impegno della Prefettura di allora.

Ed è questo lo stesso territorio che ospita il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, tra i più grandi d’Europa, già condizionato da interessi mafiosi facenti capo, per esempio, a Gaetano Riina, al clan Tripodo, agli Schiavone o ai D’Alterio.

Gli indiani per reggere le fatiche dello sfruttamento vengono indotti ad assumere sostanze dopanti, come ha denunciato In Migrazione, quali oppio, metanfetamine e antispastici. Oppio per lavorare come schiavi, per riuscire a dormire la sera nonostante i dolori, per camminare in ginocchio per raccogliere ravanelli ed essere pagati due euro ogni centocinquanta mazzetti da quindici. E quando l’oppio non basta più, allora qualcuno arriva a suicidarsi impiccandosi nelle serre oppure a farsi di eroina acquistata nelle piazze di spaccio di Castel Volturno, nel casertano, per poi morire d’overdose.

Lo conferma anche un bracciante italiano che da anni lavora con gli indiani e che desidera restare anonimo. Afferma anche che molte aziende di padroni e sfruttatori pagano il pizzo a uomini che provengono da Caserta e da Napoli. Padroni forti con i deboli e deboli con le mafie. Ci sono braccianti che vivono in sei dentro un container senza bagni e riscaldamento pagando al padrone italiano 800 euro d’affitto. Ad alcuni di loro hanno dato fuoco o spezzato le gambe perché si erano permessi di parlare con qualche giornalista o sindacalista. Sono metodi intimidatori usati per insegnare loro «come si sta al mondo».

Appena pochi giorni fa un bracciante indiano è caduto dalla serra del padrone spezzandosi le gambe. Portato al pronto soccorso di Terracina gli è stato imposto di dire al medico di turno di essere caduto dalla bicicletta. Non è un’eccezione ma la regola. La minaccia per il silenzio affinché nulla cambi.

Alcuni padroni parlano di sfruttamento di necessità per la sopravvivenza della loro azienda, mentre nei relativi campi i braccianti indiani e sempre più anche richiedenti asilo – come ancora In Migrazione ha denunciato, prelevati dai caporali all’interno di alcuni centri di prima accoglienza pontini gestiti in modo criminale e lasciati liberi di operare in questo modo dal recente decreto Sicurezza del Governo – si spezzano la schiena inalando senza alcuna protezione pesticidi e veleni. Qualche lavoratore confida di lavorare anche di notte diffondendo pesticidi vietati per legge con in testa una lampadina a pile. Veleni che entrano nel sangue e producono danni irreversibili.

Tutto questo dura da trent’anni, nonostante alcune importanti operazioni della Questura, dei Carabinieri e della Procura locale. Secondo l’ultimo rapporto Agromafie di Eurispes, il business criminale legato all’agroalimentare italiano nel 2018 è salito a 24,5 miliardi di euro, registrando un balzo del 12,4% rispetto all’ultimo anno.

Tutto questo mentre il governo, con il suo ministro dell’interno Salvini, dichiara di voler revisionare la legge contro il caporalato (199/2016) probabilmente cancellando gli aspetti sanzionatori più rilevanti a partire dal carcere per i padroni e dalla confisca dei beni usati dagli stessi nell’esercizio della loro attività criminale. Un governo dalla parte dei padroni.