Avrebbe dovuto essere la simbolica pietra tombale dell’obamismo e invece l’abrogazione dell’Affordable care act nel settimo anniversario della sua introduzione, si è trasformata in un primo clamoroso naufragio per Trump a due mesi appena dal suo insediamento.

Privati dei voti necessari dalla fronda dell’ala oltranzista, i repubblicani hanno ritirato il disegno di legge che avevano definito la «priorità numero uno» della loro amministrazione.

Un fallimento catastrofico per Donald Trump, l’autoproclamato «closer», autore di Art of the Deal sull’arte di concludere gli affari, non è riuscito a convincere una manciata di deputati alla prima votazione che contava davvero.

E un primo fallimento per l’idea di un presidente-businessman, implicitamente superiore ad un «politico», come vuole la retorica populista, in virtù della capacità di mediare accordi.

Dalla prima prova concreta Trump il «supervincitore», esce sconfitto dopo aver garantito per mesi un esito «spettacolare» e fino a pochi giorni fa una «splendida» nuova legge sanitaria ai suoi elettori.

Il presidente ha fatto la solenne figuraccia di dilettante politico con scarso dominio della materia e una insufficiente abilità di compromesso politico. Una sconfitta cocente anche per Paul Ryan, lo speaker repubblicano deposItario della accanita opposizione ad Obamacare che il suo partito ha espresso in ben cinquanta votazioni «simboliche» chiedendone per lunghi anni l’abrogazione.

L’imbarazzante collasso di questa settimana ha rivelato un preoccupante difetto di sostanza politica del partito del «no», a partire dall’assenza di un progetto alternativo attuabile suLla sanità che i repubblicani avrebbero avuto sette anni per formulare.

Con il controllo totale del governo, entrambe le camere del congresso e la Casa bianca, i conservatori non sono riusciti a mantenere la loro principale solenne promessa ai propri elettori.

Ancora più grave la successiva decisione di lasciare perdere e di «passare oltre» dato che nelle parole di Ryan, Obamacare rimarrà ora in vigore per «il prevedibile futuro».

I casi sono due: o i repubblicani hanno deciso in base ad un unica votazione di abbandonare quello che da anni vanno definendo la questione più cruciale che affronta il paese, o ammettono implicitamente che si è trattato di un semplice pretesto politico per il quale hanno ora perso interesse.

La realtà della sconfitta è che non poteva essere altrimenti. La controriforma sanitaria repubblicana era in realtà una finta raffazzonata in poche settimane da un partito ideologicamente, fisiologicamente, opposto al welfare. L’operazione tentava perciò di travestire da riforma lo smantellamento della sanità pubblica. La legge di Obama aveva tentato una mediazione fra la dottrina del libero mercato della salute che aveva portato al disastro di 50 milioni di cittadini «scoperti» e gli interessi degli assicuratori privati. Una legge imperfetta, certo, ma che aveva in qualche modo esteso la mutua a 20 milioni di cittadini.

Di contro la ricetta repubblicana a base di «libertà di scelta», diritto alla «non assicurazione», polizze a «bassa copertura» è stata un festival dell’eufemismo da parte di un partito integralista la cui fondamentale dottrina non prevede al salute come diritto umano. Se fosse passata avrebbe sottratto benefici minimi previsti da Obamacare a milioni di cittadini, compresi molti elettori repubblicani, la ragione della spaccatura insanabile fra I moderati che di quegli elettori temevano l’ira e gli oltranzisti ideologici del freedom caucus e del tea party, prodotto di decenni di deriva reazionaria assecondata da Gop.

Per costoro la mera esistenza di un programma sociale era un anatema. Dietro al loro rifiuto c’è una concezione filosofica per cui la sanità non rientra nei fondamentali diritti umani ma è bene di consumo.

La sonora batosta dei repubblicani non equivale necessariamente ad una vittoria dei democratici (né di Obamacare: le critiche ipocrite dei repubblicani sui costi e la copertura illusoria sono in parte giustificate). Si tratta però della prima concreta conferma della fatale debolezza strutturale della coalizione fra moderati e oltranzisti su cui è predicata la presidenza Trump. Una ferita autoinflitta che promette male per il futuro.