Non è un caso se i fotografi impazziscono quando a giurare di fronte al capo dello Stato sfila un professore rinomato e di qualche anno più anziano di lui, che assume la guida di un dicastero minore, quello degli Affari europei. Ma Paolo Savona, il ministro dell’Economia in pectore bloccato da un voto proprio del presidente Mattarella, è il simbolo stesso dell’enigma che la festa sul Colle non basta a risolvere. E’ una pace o una fragile tregua quella firmata tra il Colle e l’«uomo forte» del nuovo governo, il neoministro degli Interni Matteo Salvini?

CHE IL FRONTE RESTI rovente lo chiarisce proprio il leghista: «Savona è al posto giusto per ricontrattare le regole Ue». Poche parole ma sufficienti a chiarire che il professore non sarà affatto in posizione defilata. Mattarella è uscito vincitore dal braccio di ferro, ma non si è trattato di resa incondizionata. Savona siede nel consiglio dei ministri, occupa una postazione nevralgica nei rapporti con la Ue, ha indicato lui il ministro che lo ha sostituito, Giovanni Tria. Sperare che un economista rinomato come Savona, in queste condizioni, non metta bocca nelle scelte economiche sarebbe illusorio.

PER QUESTO MATTARELLA sente il bisogno di tornare sull’argomento nel suo breve discorso, oltre che per tranquillizzare un’Europa il cui nervosismo resta estremo: «L’Italia intende svolgere un ruolo sempre più positivo e da protagonista nell’unione europea». Tria conferma: «In Italia non esiste nessuna forza politica che dica di voler uscire dall’euro». Ha ragione naturalmente. Solo che il punto dolente non sono i deliri sui piani segreti per uscire dalla moneta unica. Sono le eventuali forzature sulle voci di spesa, inevitabili se il governo vuole realizzare anche solo una parte del Contratto. Su quel fronte, il più delicato di tutti, si deve dunque per forza parlare di tregua e non di pace.

L’ALTRO CAPITOLO A RISCHIO di esplosione è quello dell’immigrazione. Salvini ha raccolto buona parte dei consensi promettendo politiche ringhiose contro gli immigrati e quello, al contrario delle riforme economiche, è un settore che ha il vantaggio di costare relativamente poco. Si può essere certi che il ministro userà la postazione di massima visibilità per martellare. Essendo migranti, rom e poveracci vari molto meno importanti del rigore e dei conti, nessuno ha ritenuto utile fermarlo su quella china. Il buon giorno si vede dal mattino e Salvini non aspetta neppure il giuramento per iniziare a scatenarsi. «Vorrei dare una bella sforbiciata ai 5 miliardi di euro per l’accoglienza, che mi sembrano un po’ tanti», ruggiva nella notte prima del giuramento. E ieri annunciava: «Domenica vado in Sicilia, voglio vedere dove sbarcano».

Anche qui il presidente, con l’abituale discrezione, lo ha rintuzzato ieri in un messaggio ai prefetti: «Va arrestato con fermezza ogni rischio di regressione civile in questa nostra Italia e in questa nostra Europa». A premere sul capo dello Stato, cattolico, ex sinistra Dc, non sarà in questo caso l’occhiuta Europa. Saranno in compenso i vescovi. La Cei aveva già notificato al Colle la perplessità, per non dire l’aperta ostilità dei vescovi, alla nomina di Salvini a premier, ed è certo che la Chiesa non si fermerà. Anche qui la tregua parte già traballante.

L’ULTIMO LATO dell’edificio del governo a rischio di crollo non riguarda i rapporti tra esecutivo e Quirinale ma quelli all’interno della maggioranza. L’ammutinamento dei parlamentari 5 Stelle che giovedì ha messo FdI fuori dalla porta quando Giorgia Meloni aveva già il ministero della Difesa in tasca indica quanto sia difficile, per una parte sostanziosa degli elettori e degli eletti a cinque stelle, reggere politiche troppo scopertamente di destra. Con Salvini agli Interni e l’integralista Lorenzo Fontana alla Famiglia ci vuole una buona dose di ottimismo per sperare che quelle politiche non arriveranno sin troppo presto. Senza contare il nodo delle Infrastrutture, affidate al 5S Danilo Toninelli, sulle quali l’impostazione dei due soci di maggioranza è diametralmente opposta. Del resto la stessa formula del «contratto», cioè di un accordo tra partiti in competizione diretta, espone l’intesa a minaccia permanente. Se qualche prova elettorale rilevante sconvolgerà gli equilibri, dimostrando che l’alleanza premia una delle parti in causa ma penalizza l’altra, il governo sarà travolto.

L’ULTIMO FATTORE DI INSTABILITA’ è esterno alla maggioranza. Si chiama Silvio Berlusconi. Ieri il leader azzurro ha confermato la linea già annunciata: niente fiducia al governo gialloverde ma disponibilità a votare i provvedimenti sui quali il suo partito concorda. In realtà il signore d’Arcore è furibondo. Detesta questo governo, in particolare per il suo giustizialismo, e non sopporta i 5S. Spera dunque nelle tensioni tra Lega e Movimento 5 Stelle e aspetta che maturino le condizioni giuste per scippare quei sei senatori che costituiscono lo scarso margine della maggioranza.