Tre fotografie Alinari aprono la sequenza delle tavole. Esse illustrano il diario del «Viaggio in Sicilia» che Bernard Berenson tiene regolarmente tra il 19 maggio e il 16 giugno del 1953.

Nella prima osserviamo un «panorama dello Stretto» che il celebre critico ha appena attraversato; quindi volgiamo la pagina su un «panorama della città di Messina dal mare prima del 1908». La terza fotografia ci mostra «la ‘Palazzata’ colla Fontana di Nettuno del Montorsoli (1557), prima del 1908». «Prima», si intende, del distruttivo terremoto del 1908. Con le tre immagini Berenson evoca una dimensione parallela, un passato che si sovrappone quando, addirittura, non scansa il presente o al presente reintegra quel che si è perduto nel corso del tempo. Ma, a ben considerare il raccordo delle illustrazioni con il testo del diario cui si abbinano, quel «prima» acquista anche il senso di un ‘prima di ieri’, 19 maggio 1953, giorno dell’arrivo di Berenson a Messina, e di un ‘prima di oggi’. Oggi, 20 maggio, che Berenson nel diario annota: «questa città è piena di vita. Vi prevale una certa gaiezza, la vista del mare e la brezza marina. Tuttavia, io penso nostalgicamente alla Messina che visitai per la prima volta nel 1888, con il suo nobile lungomare, detto ‘La Palazzata’ e con vie parallele a questo, fronteggiate da palazzi o palazzetti di buona linea. Tutte le loro finestre avevano un balcone, e ogni balcone era racchiuso in una gabbia di ferro battuto e dorato. Di quella Messina, allora ricca di chiese e di monumenti, che cosa c’è rimasto?».

Oltre lo Stretto, arrivare in Sicilia a Messina è, per Berenson, l’approdo a una latitudine. Si apre a un viaggio che conduce a ciò che resta di quanto, nella sua integrità, è ormai scomparso. Reca a un ‘prima’ rovinato, diruto ma, nei monumenti e nei luoghi che Berenson volta a volta visita, presente. Come il Tempio a Segesta, nella «solitudine in cui esso riposa». O come “la serie dei mosaici pavimentali di un’antica villa romana” a Casale, così fangoso “il sentiero che mena” agli scavi. Un ‘prima’, dunque, rintracciabile nei siti, nei paesaggi, nei monumenti. E un ‘prima’, anche, custodito nel tempo, presente come memoria, ovvero percorribile nella vastità della consapevolezza interiore: «questa volta non mi sono fermato a Catania, ma non so resistere alla tentazione d’includerla per un poco in quel più lungo ed errabondo itinerario che, nel contempo, vado anche seguendo fra i ricordi di altri miei viaggi in Sicilia».

La piana prosa diaristica di Berenson, volta in italiano da Arturo Loria, fa giocare insieme il ‘prima’ temporale con l’‘innanzi’ locativo, il ‘di fronte’ e del passato mostra la costanza che resta, la persistenza come contesto di relazioni analogiche, derivazioni e sviluppi, interruzioni e vuoti, illuminazioni. Un ‘prima’ che resta o, piuttosto, si accende per inaspettate collusioni o per congiunzioni obsolete, altra volta a lungo trascurate e che, d’incanto, si palesa vivido e smagliante. Il color del miele del Tempio della Concordia coincide coi “giorni lontani, in cui avevo l’agio di starmene qui seduto per ore, con la schiena appoggiata ad una di queste colonne, odorando il timo e leggendo Teocrito e Virgilio».

La progettazione grafica e tipografica del suo «Viaggio in Sicilia», stampato nel 1955, Berenson la deve a Dario Neri, il creatore della Electa Editrice, imprenditore e pittore, colto allievo di Adolfo de Karolis. È bene menzionare l’accuratezza tipografica e l’eleganza editoriale del volume che ho tra le mani. La legatura grigia, la carta tenace appena avoriata, il tono lievemente seppiato della bicromia delle centoventi tavole. Una sensazione estremamente piacevole, se leggere non equivale ad una registrazione di dati o a una mera acquisizione di informazioni. Se leggere è realizzare uno stato d’animo, perseguire una compiuta dimensione dello spirito, mentre la mano e l’occhio trascorrono sul ‘manufatto’ libro che richiede speciali disposizioni, perfino un atteggiamento del corpo, una postura, dico. Leggere parole che non scompaiono rapide. Il libro si offre alla concentrazione del lettore attento fino a divenire, appunto, una disposizione del corpo, come la penna diviene intrinseca alla mano dello scrivente e al suo pensiero.