Con una «donazione» di 1 milione e 185mila euro alla famiglia Lo Porto per compensare la morte del figlio Giovanni, gli Stati Uniti considerano chiuso il caso del cooperante ucciso da un drone americano in Pakistan nel gennaio del 2015.

Una donazione in memoriam, formula ribadita ieri dall’ambasciata americana dopo che il quotidiano La Repubblica aveva rivelato l’accordo siglato l’8 luglio da un diplomatico incaricato di mettere una pietra tombale sulla vicenda. Che resta invece aperta in tutta la sua drammaticità anche se Washington si è tutelata con una formuletta che esclude che la donazione – non dunque un risarcimento ma al massimo un asettico riconoscimento del fatto – possa collegarsi a qualsivoglia futura azione legale: «Ciò non implica il consenso degli Stati Uniti d’America all’esercizio della giurisdizione italiana in eventuali controversie direttamente o indirettamente connesse al presente atto…». Punto e basta.

Ma per i familiari la ferita sanguina perché il denaro non spiega l’errore fatale che si portò via Giovanni e il suo compagno di prigionia Warren Weinstein (detenuti pare da un gruppo qaedista) alla memoria del quale per ora non si sa se l’Amministrazione abbia riconosciuto altrettanto: «Non potrò più rivedere mio figlio e il suo sorriso. Hanno preso il mio prezioso figliolo e hanno ucciso anche me – ha detto la madre di Giovanni – e ora tutto ciò che mi rimane è attendere l’ultimo giorno della mia vita per aver giustizia divina, non certo terrena».

Le fa eco Margherita Romanelli della ong Gvc con cui Lo Porto aveva a lungo collaborato: «Bene i soldi ai genitori di Giovanni, ma non ci arrendiamo. Vogliamo tutta la verità sulla vicenda. Possono mascherarla come vogliono ma non ci sarebbe stata donazione senza una responsabilità reale e i soldi sono una chiara dimostrazione di risarcimento. Chiediamo che venga fatta chiarezza per vie legali, con un’inchiesta per far luce sulla vicenda e scoprire cosa sia esattamente successo e quali siano stati gli errori che hanno determinato la morte».

È quanto ha sempre chiesto anche il senatore Luigi Manconi (lo stesso che segue da vicino il caso Regeni) che proprio alcuni mesi fa, dopo l’ammissione pubblica di Obama sulla morte di Lo Porto e Wallestein, aveva chiesto, con la famiglia, sia il risarcimento sia la verità. Ma quella, rischiando di compromettere la «sicurezza nazionale», difficilmente verrà fuori.

Quella per Giovanni non è la prima né sarà forse l’ultima donazione-risarcimento fatta dagli americani per chiudere i casi in cui i droni hanno ucciso civili innocenti.

Il caso forse più famoso è quello che vede protagonista Faisal bin Ali Jaber cui un funzionario yemenita aveva messo in mano 100 mila dollari in contanti che Faisal aveva rifiutato preferendo rivolgersi al tribunale. Nell’aprile scorso ha impugnato la decisione di un tribunale distrettuale federale di Washington che ha rigettato la sua causa del 2015 con cui voleva determinare se fossero o meno legali gli attacchi dei droni che, nell’agosto 2012, avevano ucciso suo cognato Salem, un imam (tra l’altro anti jihadista), e il nipote Waleed, agente di polizia. Un caso che non smette di far discutere e che vede coinvolti anche tre veterani, i quali hanno lavorato nei programmi speciali militari che utilizzano droni. Gli ex soldati hanno detto alla corte di essere «testimoni di un segreto», di un sistema che non ha riguardo per i confini e che molto spesso non ti fa sapere chi stai uccidendo.

In molti casi infatti si tratta di signature strike (quel che di potrebbe definire un «attacco all’impronta») che si verifica quando i militari o gli agenti della Cia decidono di colpire non in base all’identità dell’obiettivo ma perché il bersaglio ricalca un’impronta: rientra cioè in un certo schema che automaticamente lo infila in una determinata casella che funziona secondo certi criteri.

Naturalmente non sempre è così ma nell’aprile del 2015 (proprio l’anno della morte di Lo Porto) il Wall Street Journal rivelò che Obama aveva autorizzato a violare le regole, piuttosto rigide, sui droni approvate nel 2013 per far sì che la Cia potesse spingersi a colpire i jihadisti pachistani con maggior «flessibilità». Quanto alla giustizia americana, segue sempre lo stesso copione. Quello usato anche per Faisal: un giudice federale ha rigettato l’azione legale contro l’Amministrazione anche dopo uno strike in Yemen che è costato la vita nel 2011 a tre cittadini americani.

In un altro caso yemenita, per evitare azioni legali, Washington (secondo l’ong Reprieve) ha pagato un milione di dollari ai parenti delle 12 vittime di un attacco di droni durante un matrimonio nel 2013.

E se per la morte di un solo italiano gli Usa hanno versato un milione – la cifra più alta mai pagata per la vittima di un drone – c’è anche uno spiacevole aspetto razzista, di convenienza politica, di equilibri diplomatici con gli alleati. Sì, perché, come ha scritto Valerio Pellizzari nel suo «In battaglia, quando l’uva è matura» la vita degli «altri» costa davvero poco: «Un morto afghano vale tremila dollari. Ma è una cifra teorica… non viene pagata in valuta ma in kit, in pacchi che possono contenere dai pannelli solari ai ferri da stiro elettrici… in villaggi dove la corrente non arriva. Per ricevere queste donazioni c’è da seguire una procedura rigorosa e contorta… umiliante… e il costo del viaggio (per trasportare i kit ndr) spesso supera il valore del materiale trasportato».