«Il popolo è il solo fondamento dello stato, e lo stato è prospero e in pace solo se è stabile» si legge nel Shujing, uno dei cinque capisaldi della letteratura classica cinese. E il popolo, anche se attraverso il recupero di Mao Zedong, ritorna al centro dell’interesse del Partito comunista, grazie al lancio di una nuova campagna di Xi Jinping, tesa a rinnovare il patto tra Partito e masse, in nome della stabilità.
Quando Xi Jinping è diventato il Presidente della Repubblica Popolare cinese nel marzo scorso ci si era chiesti se la sua fosse un’ascesa caratterizzata da una posizione di forza o meno. Ci si chiedeva in che modo i vecchi del partito avrebbero ancora influenzato le politiche nazionali, soprattutto nel momento in cui la Cina è chiamata ad un altro cambiamento epocale, ovvero trasformare la propria economia basata sull’esportazione ad una capace di sviluppare il mercato interno.

Questo cambio di paradigma significa tante cose: aumento dei salari e della spesa delle famiglie, urbanizzazione, crescita controllata, diminuzione dei sistemi dei prestiti e soprattutto una riforma, come più volte annunciato, delle aziende di stato.

In tutta questa attesa di cambiamenti, con un’economia che «rallenta» a un +7 per cento di crescita, Xi Jinping si sta ormai accaparrando la fama di «nuovo Mao», grazie ad alcune decisioni e campagne lanciate negli scorsi mesi, che indicano una sostanziale accettazione di quanto in molti ritengono sia il suo compito principale: rinverdire quell’accordo tra popolo e Partito su cui di fatto si basa la stabilità cinese. Xi Jinping ha riportato in auge «la linea di massa» (qunzhong luxian in cinese) pilastro del maoismo dei primi tempi, secondo il quale le masse dovevano essere al centro del pensiero politico del Partito.

In pratica a Xi Jinping cosa si chiede, se non di tenere unito un paese sottoposto a cambiamenti talmente rapidi da rischiare di vedere le tensioni sociali sfociare in clamorose violenze? Xi – constatata la perdita di fiducia nel popolo nei confronti del Partito – sta tentando di recuperare quel deal più volte sancito e modificato dai leader del passato.
Rimanendo in tempi più recenti, l’accordo su cui dal 1989 fino a poco tempo fa si è basata la stabilità cinese – non senza importanti scossoni – è stato quello di Deng Xiaoping: «arricchirsi è glorioso». In questo modo il vecchio Deng promise prosperità e sviluppo, chiedendo in cambio le redini del paese. Voi arricchitevi e godete del progresso cinese, al resto ci pensa il Partito. Per vent’anni circa ha funzionato. Poi nel 2008 la crisi ha cominciato a emettere i suoi segnali anche in Cina, ma più di tutto lo straordinario sviluppo cinese ha rivelato quanto si nascondeva sotto la patina del «miracolo»: corruzione, diseguaglianza, inquinamento, proletarizzazione di masse ingenti di popolazione rurale e ora tanti laureati, 7 milioni quest’anno, che faticheranno a trovare lavoro. Hu Jintao ha provato quindi a rinverdire i fasti del confucianesimo, riproponendo il concetto di società armoniosa (hexie shehui), tentando di propagandare un bilanciamento tra le diversità, che ha trovato poca pratica nella crescita che durante il decennio di Hu ha raggiunto anche il 14 per cento, ma a costi altissimi.

Da Deng a Hu, si è arrivati ad oggi: il rischio che l’accordo tra popolo e Partito si rompa c’è, è reale ed è testimoniato da centinaia di migliaia di «incidenti di massa» che avvengono ogni anno nel paese (secondo alcune ricerche sarebbero 180mila). Si dice che Xi Jinping nel corso di una riunione straordinaria del Comitato Centrale abbia invitato a non denigrare il passato maoista e c’è chi ritiene che questo rilancio della «linea di massa» possa essere uno dei passi verso una centralizzazione del potere da parte di Xi che manderebbe in soffitta quella gestione collegiale del Partito tanto utilizzata dall’ex coppia al potere Hu Jintao – Wen Jiabao.
Secondo quanto riportato dalla stampa locale, che sta dedicando ampio spazio a questo ritorno del «maoismo», una nuova campagna sarebbe stata presentata nel mese di aprile scorso e obbligherebbe i funzionari di livello provinciale o superiore a «riflettere sulle proprie pratiche e a correggere qualsiasi comportamento scorretto in conformità con il sentimento pubblico».