Xi Jinping apre alle «fedi tradizionali», a dimostrazione di come quel vuoto ideologico che la Cina affronta dalla fine del maoismo e procurato dalla trasformazione economicista di qualsiasi categoria del sociale e del politico, sia ormai ad un punto di pericolosità troppo elevata: un paese senza linee guide spirituali ed etiche, solo propenso ad arricchirsi e a favorire la scorciatoia della corruzione, può dare vita a tensioni sociali che il Partito comunista non può permettersi in questa fase storica.

La Cina si appresta a modificare la propria economia, mentre prosegue la straordinaria campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping; a questo proposito ci si è chiesto da subito dove volesse andare a parare il nuovo Presidente. La recente rivelazione da fonti Reuters sulle «fedi tradizionali», sembra tratteggiare un sentiero che tiene insieme la campagna anticorruzione e la nuova stretta ideologica (la «linea di massa» e le nuove sessioni di «autocritica»). La Cina, protagonista di trasformazioni economiche e sociali epocali, attuate con estrema velocità e il più delle volte senza spiegazioni fornite dalla leadership, è alla ricerca di un collante sociale capace di garantire una bussola etica e morale alla propria popolazione; per questo Xi Jinping avrebbe invitato i funzionari e i media cinesi a essere meno critici verso le «fedi tradizionali» cinesi, confucianesimo, taoismo e buddismo. Anche queste «fedi tradizionali» (i cinesi vivono la religione in modo diverso dall’Occidente, considerandola parte integrante della vita sociale) possono aiutare a combattere ed evitare la corruzione e ritrovare una guida morale in questo periodo di grandi processi storici.

Si tratta di un cambio di rotta di una certa rilevanza, che come spesso accade però, risponde ad una realtà sociale già presente. Chi vive in Cina lo sa bene: aumentano sempre di più i cinesi che si rifugiano nel buddismo o in altri credi popolari, per avere uno scopo nella vita e oltre, che non sia solo l’arricchimento sfrenato. È certamente un cambio epocale da un punto di vista politico, perché dalla vittoria della Rivoluzione ad oggi, le religioni in Cina non hanno certo avuto grande successo «ufficiale». Renata Pisu nel suo splendido Né Dio né Legge (Garzanti, 2013) ricorda quando Edgar Snow chiese a Mao come gli sarebbe piaciuto essere descritto. Mao rispose con un gioco di parole che lo scrittore non conosceva, dicendo wu fa wu tian, che la Pisu collega ad un indovinello cinese, traducendolo in «senza Dio e senza legge». Fu proprio durante il periodo maoista e ancora di più durante la Rivoluzione culturale che avvenne il bombardamento contro le fedi tradizionali. Più di tutti venne frantumato Confucio, considerato «affamatore del popolo, servo dei signori feudali, mostruoso vecchio dal naso adunco che con le sue grinfie si avventa contro fanciulli indifesi», come ricorda la Pisu.

Proprio il crollo del maoismo sotto i colpi del capitalismo liberista voluto dalla nuova dirigenza, aveva però dato continuità alla lotta contro le religioni tradizionali. Fu anzi Jiang Zemin il principale artefice di una guerra serrata contro le sette e contro quel Falun Gong, capace di diventare addirittura una minaccia politica alla Cina. Da allora il Falun Gong fu vietato (anche se oggi in Cina non è totalmente assente, dato che spesso nei compund popolari anche di Pechino, si possono trovare volantini di propaganda) e l’epoca di Hu Jintao e Wen Jiabao non fece eccezione.

Proprio con Hu Jintao però la Cina ricominciò una vera riabilitazione di Confucio, una volta assodato che da quel fronte non sarebbero arrivati pericoli politici per il Partito Comunista. Nell’ottica di trovare un nuovo collante sociale, in grado di unire il popolo cinese, pur nelle sue diversità etniche e di ricchezza, i principali concetti confuciani di «armonia» e di «società armoniosa» hanno avuto nuova linfa durante il decennio di Hu Jintao.

Si dice che la famiglia di Xi Jinping sia buddista, anche per questo il buddismo è visto come tra i principali beneficiari di questa svolta: Zhang Lebin, vice direttore dell’Ufficio affari religiosi, ha scritto un commento a luglio sul Quotidiano del Popolo, in cui ha specificato che «trattare bene le religioni dovrebbe diventare un consenso comune e il diritto di praticare le religioni deve essere protetto». Il mese successivo, Xi ha fatto un appello per la costruzione di una «civiltà sia materiale sia spirituale». E lo scorso febbraio, Xi Jinping avrebbe incontrato il principale monaco buddista di Taiwan, Hsing Yun, a Pechino, insieme a una delegazione di dignitari provenienti dall’isola. Hsing Yun – ricorda la stampa cinese – è stato bandito dalla Cina nei primi anni Novanta per aver dato asilo a un funzionario cinese presso il suo tempio negli Stati Uniti dopo la repressione di Tienanmen del 1989. In un altro segnale, ha ricordato il South China Morning Post, Yu Zhengsheng, al quarto posto nella gerarchia comunista, ha visitato cinque templi nelle aree tibetane a luglio e agosto e una moschea nella provincia occidentale dello Xinjiang a maggio – «visita senza precedenti per un leader anziano».

Proprio nel Tibet e nel Xinjiang, però, il comportamento dello stato cinese al solito è differente rispetto al resto del territorio. Aveva fatto scalpore in Cina, qualche mese fa, un report del Guardian secondo il quale la Cina permetteva il proselitismo a «evangelizzatori» cristiani nelle aree tibetane. Al riguardo bisogna fare alcune precisazioni: non solo in Tibet, ma anche in Mongolia, o in alcune regioni del nord cinese, la presenza di evangelici e cristiani è molto folta, specie nelle università dove vengono ospitati professori stranieri. La funzione e la tolleranza del Pcc è motivata: in primo luogo anche il cristianesimo, se spogliato dell’ingerenza papale, può essere visto come collante sociale e come potenziale guida spirituale di un paese che ha bisogno di valori attraverso i quali trovare coesione. In secondo luogo, specie nelle aree dove il fattore religioso è più rischioso per il Partito (Tibet, Xinjiang) il fiorire di altri fedi può fiaccare la forza delle religioni storiche, il buddismo in Tibet, l’islamismo in Xinjiang.