Il presidente del Messico, Enrique Peña Nieto arriva negli Stati uniti in un clima di contestazioni e polemiche. Le organizzazioni per i diritti umani si sono date appuntamento davanti alla Casa Bianca per chiedere a Obama di «non sostenere il narco-governo di Peña Nieto» e per denunciare «il crimine di stato»: ovvero il massacro di Iguala (quando polizia e narcotrafficanti hanno attaccato gli studenti delle scuole rurali di Ayotzinapa, tra il 26 e il 27 settembre scorso), e la scomparsa dei 43 normalistas. «Nonostante lo scandalo di portata mondiale – scrivono i movimenti – Obama e la sua amministrazione continuano a sostenere il governo corrotto e criminale di Peña Nieto con milioni di dollari del Plan Mexico. Per questo, gli Stati uniti e Obama sono anch’essi responsabili dell’attuale tragedia del Messico».

Una tragedia che ha scolvolto il paese, evidenziando il pervasivo intreccio di mafia e potere che permea tutto il sistema politico messicano, e facendo emergere una forte domanda di cambiamento: di segno opposto ai piani neoliberisti di Nieto. All’inizio del 2014, il presidente messicano veniva celebrato dalla rivista Time International come l’uomo che avrebbe «salvato» il Messico. Oggi, però, la sua immagine è ben diversa da allora, offuscata dai fatti di Iguala, dall’esecuzione a freddo di 22 persone per mano dei militari e dagli scandali per corruzione emersi negli ultimi mesi. Dal 46% registrato dai sondaggi in agosto, la popolarità di Nieto è scesa al 39% a novembre. Inoltre, all’interno del generale rallentamento dell’economia latinoamericana, quella del Messico non gode più di un buon vento, colpita anche dalla drastica caduta del prezzo del petrolio.

Il presidente Nieto sostiene che, nel 2015, l’economia crescerà comunque tra il 3 e il 3,5%, e che il Messico «conta su una solida strategia di controllo dei rischi macroeconomici, con un tipo di cambio flessibile che permette di assorbire i contraccolpi esterni, con le grandi riserve internazionali (191 miliardi di dollari) e con una linea di Credito flessibile (73 miliardi di dollari) con il Fondo monetario internazionale». Un credito concesso in cambio del vasto piano di «riforme strutturali» messo in atto dal governo di Peña Nieto e interamente pagato dai settori popolari. Con il suo omologo statunitense, il presidente messicano parlerà quindi di politiche migratorie e di diritti umani (gli Stati uniti hanno chiesto «chiarezza» sulla scomparsa dei 43 studenti), ma soprattutto di accordi leonini affinché Washington faccia da traino all’economia messicana favorendone le esportazioni.

Intanto, in Messico si continua a manifestare per i 43 studenti al grido di «Vivi li hanno presi, vivi li vogliamo». Finora, sono state arrestate 90 persone, tra le quali 58 poliziotti e l’ex sindaco di Iguala. Per la magistratura, il caso dei 43 dev’essere classificato come l’ennesimo massacro di cui è teatro il Messico. Gli studenti sarebbero stati consegnati dalla polizia di Iguala ai narcotrafficanti, che li avrebbe bruciati nella discarica di Cucula. Lì sarebbero stati rinvenuti i resti di Alexander Mora, analizzati in un laboratorio austriaco. Secondo la commissione di esperti argentini, nominata dalle famiglie dei desaparecidos, non c’è prova che le ossa dello studente si trovassero nella discarica, perché sono stati consegnati agli esperti in un sacco: «I nostri figli sono vivi, li ha presi l’esercito», dicono le famiglie.