«Ottimista». Figurarsi se alla vigilia del voto con cui si gioca la dua duplice faccia di presidente del consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi si faccia sfuggire l’occasione di dichiararsi ottimista. In realtà i segnali che arrivano dalle regioni non sono smaglianti. L’aria è cambiata, dopo la prima fase della corsa elettorale. E c’è da capire l’effetto che farà nelle urne la guerra civile esplosa nel Pd con la pubblicazione della lista dei 16 «impresentabili» da parte della commissione antimafia. Fra loro lo stesso candidato presidente del Pd in Campania Enzo De Luca. Un assist insperato per i 5 stelle che, dopo aver accusato Rosy Bindi di fare accordi con la destra per proteggere il suo partito adesso le esprimono solidarietà. Ma è un abbraccio mortale, agli occhi dei renziani. Ieri don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ha speso parole di elogio per lei: «Da anni auspichiamo un rinnovamento della politica, una sua pulizia dal malaffare, dalla corruzione, e dai fiancheggiamenti con il crimine organizzato, e ora che la Commissione Antimafia esercita fino in fondo le sue funzioni si riduce tutto ad una lotta di potere tra correnti di partito». Così Susanna Camusso: «Il tema è avere un comportamento rigoroso, che è quello che si decidono delle regole e poi si applicano. Non è che le regole debbano variare in ragione di altre convenienze». Persino il cardinal Bagnasco, presidente Cei, le ha teso la mano: «Chi si presenta per fare un servizio al paese, recita la nostra Costituzione, deve farlo in modo onorabile». Ma la verità è che Bindi è rimasta sola e le accuse che ha ricevuto la invitano all’uscita dal Pd. Ieri da lei ha preso le distanze anche l’ex capogruppo Speranza: «Conosco bene De Luca e vedere il suo nome accostato all’Antimafia è in totale contraddizione con il suo impegno e con la sua storia». Appena ci saranno i risultati delle regionali e in particolare quello di Liguria e Campania, le due regioni in bilico, nel Pd scatterà la resa dei conti. Alcuni usciranno, come Stefano Fassina. Ma al di là degli addii, il partito è un colabrodo, non c’è federazione che vada al voto – tranne la Toscana – che non abbia dovuto affrontare un qualche terremoto interno. Inutilmente Lorenzo Guerini, vice di Renzi e suo plenipotenziario , ha cercato di porre rimedio a situazioni vecchie e inemendabili – come quella campana – spesso sfuggite al controllo centrale sin dai tempi di Bersani. Il caso De Luca, gli abbandoni in Liguria, persino il passaggio del governatore delle Marche uscente a Forza Italia ne sono gli esempi solo più eclatanti.

Così Renzi prova a ridimensionare la portata del voto e, dopo tanta baldanza, ora nega che sia un test su di lui: «Francamente no. Questa può essere stata una lettura che si è data sulle elezioni europee, lettura che anche in quel caso non condividevo. Ma le elezioni locali servono per le elezioni locali. Non c’è nessuna conseguenza». Ma è solo un tentativo di mettere le mani avanti. Il voto di oggi porta alle urne 23 milioni di italiani. Sarà un vero test sul governo nazionale, più credibile di molti sondaggi.

Per questo ieri ha fatto propaganda fino all’ultimo. Dal Festival dell’economia di Trento, dov’era ospite con il collega francese Manuel Valls, ha cercato di accodarsi agli eurocritici vincenti di Spagna e Polonia: «Il futuro dell’economia parlerà italiano e francese, ma non tedesco», ha assicurato, e via con la promessa di fare «casino» a Bruxelles, e «con una determinazione che non immaginate». E se «in Polonia hanno vinto i nazionalisti, in Spagna non è chiaro cosa potrà accadere, la Grecia sta nelle condizioni che sappiamo, il Regno Unito riflette sull’Europa», noi italiani dobbiamo stare sereni che in Italia si apre una stagione «fantastica». Segue propaganda su jobs act, tasse, presunti miglioramenti delle condizioni dei lavoratori.

Il presidente cerca di motivare i suoi elettori, e se ne infischia del silenzio elettorale. Anche perché l’astensionismo rischia di essere l’unico vero sfidante in campo. Quello che ottiene per ora è la furia degli avversari: il forzista Brunetta chiede alla procura di Trento di intervenire perché «la rottura del silenzio elettorale con manifestazioni dirette o indirette di propaganda è punito fino a un anno di carcere». Il deputato M5S Fraccaro annuncia un esposto. Da sinistra anche Civati e Fratoianni attaccano: «Prima di lui solo Berlusconi, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, violò il silenzio. Ma almeno per un giorno può evitare di parlare?». È l’accusa di berlusconismo, forse anche un auspicio: perché quella volta il giorno dopo Berlusconi perse