Lui si chiama Phaim, lei si chiama Asia Blu, hanno vent’anni più o meno, si incontrano, si piacciono, si innamorano. Fine della storia. Anzi no perché questo «boy meets girl» è solo l’inizio di infiniti problemi per i due protagonisti e, seppure a diversa intensità per chi gli sta intorno, con lo scompiglio improvviso di certezze (e autocertezze), luoghi comuni, stili di vita alternativi e modalità tradizionali. Bangla l’esordio alla regia di Phaim Bhuiyan, uno dei successi in questa edizione del Festival di Rotterdam (fino al 3 febbraio) – dove la selezione italiana è stata capace di restituire le molteplici tendenze del cinema nostrano – è una commedia che usa l’autofinzione (il regista ne è anche il protagonista) con ironia e molto umorismo per raccontare la vita di un ragazzo 2G, la seconda generazione, i figli nati in Italia di immigrati, «dall’interno» senza pregiudizi né indulgenze.

PERCHÉ  Phaim è come dice di sé 50% bangla, 50% italiano ma soprattutto 100% di «Torpigna», ossia Torpignattara, il quartiere romano dove il film si svolge, di cui il personaggio (col suo stesso nome) traccia una sintetica quanto precisissima cartografia all’inizio. Ci sono i creativi che si accoppiano tra loro, prendono l’aperitivo e chiamano i figli coi nomi strani, ci sono gli immigrati che parlano, specie i «bangla», italiano malissimo, e ci sono i vecchi che non sanno più dove girarsi di fronte al cambiamento della zona. Lui, Phaim, che parla romano, è musulmano, suona in un gruppo, famiglia molto tradizionale – specie la mamma che tutto decide. Nella moschea il giovane e affascinante imam spiega cosa si deve fare e cosa no, la sorella maggiore si sposerà presto con un fidanzato che non è nemmeno sicura di amare, all’amico chitarrista è stato già combinato il matrimonio. Anche a lui toccherà prima o poi la stessa sorte e nell’attesa niente alcol ma soprattutto niente sesso.

FINCHÉ appunto non compare Asia (Carlotta Antonelli) , famiglia che concentra ogni possibile variazione della contemporaneità, genitori separati, mamma che sta con una compagna, fratellino nato con la fecondazione assistita. Asia fa domande dirette – «Ti masturbi almeno?» – alle sue dichiarazioni di verginità, e Phaim fatica a rispondere. Come tenere i mondi insieme, e senza «peccare» o farsi scoprire dalla famiglia?
La forza di Bangla (nella sezione Big Screen Competition) – e la sua dirompente scommessa specie nell’Italia di oggi – è quella di guardare da tutte le parti: in una prima persona a cui la distanza narrativa permette una scanzonata libertà (la sceneggiatura è dello stesso Phaim Bhuiyan e di Vanessa Picciarelli), il regista come un Kureishi del nuovo millennio, dà voce alle tensioni di una «seconda generazione» in bilico tra la tradizione, e i suoi obblighi, e i desideri normalissimi di un qualsiasi ragazzo/ragazza di qui, illuminando con precisione anche i luoghi comuni dell’«altra parte». Che sono le ipocrisie ben radicate pure nelle famiglie alternativissime – peraltro insopportabili come ogni famiglia – e nei nasi arricciati delle amiche Roma nord di Asia di fronte al nuovo fidanzato – «oddio quanto è brutto».

NON È un «noi» e «loro» quello che mette in scena il film ma un solo «noi» fatto di differenze, coi i suoi conflitti, le incomprensioni, e soprattutto con un’idea di «identità» (e appartenenza) fluida. Perché nonostante quello che pensano i razzisti nostrani – e mondiali – e i diffidenti, questo è il nostro mondo, Phaim ce lo dice scegliendo la leggerezza (si ride molto guardando il film) e con la profondità di chi sa mettersi in gioco, senza aggrapparsi a semplificazioni e a schemi. Lui che a Torpigna è nato e cresciuto – pure se la cittadinanza italiana l’ha avuta a diciotto anni – sa ascoltare il nostro tempo e le sue contraddizioni come da tante parti non si fa più.