Sono trascorsi 8 anni dalla scomparsa del giornalista de il manifesto, Stefano Chiarini. Quest’anno la giuria del premio, composta da operatori dell’informazione, intellettuali, esponenti della società civile, presieduta da Flavio Novara e di cui fanno parte Maurizio Musolino e Stefani Limiti del Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila, lo ha assegnato al drammaturgo e musicista Moni Ovadia. Un premio che ricorda l’impegno di Stefano per la giustizia in Medio Oriente, in particolare in Palestina. Ne abbiamo parlato al telefono con Moni Ovadia.

Il premio Chiarini le è stato attribuito per l’impegno a favore della causa palestinese. In che modo l’arte è in grado di avvicinare una questione solo apparentemente lontana come quella palestinese alla gente?

Mi occupo di cultura yiddish, il cui messaggio è strettamente collegato al popolo palestinese, un popolo in diaspora, segregato nella propria terra o in esilio. Al centro del mio discorso c’è l’umanità fragile, di cui la Palestina è specchio. Il popolo palestinese è il più solo al mondo, ma riesce a mantenere la propria identità in condizioni disperate. Non posso non sostenere una simile causa e lo faccio con i mezzi che conosco: smuovere le coscienze attraverso il processo artistico che permette la trasfigurazione in modo più efficace di un saggio accademico. Dopotutto, chi tracciò le caratteristiche dell’uomo moderno meglio del più grande drammaturgo della storia, William Shakespeare? Io, artigiano dell’arte, cerco di portare al centro l’umanità. È perciò impossibile non parlare di ingiustizia, oppressione. E la Palestina ne è modello: una topografia devastata, un futuro compresso. Lo faccio con l’arte perché sono un militante e resto sconcertato di fronte al silenzio e alla viltà raggelante che caratterizza le posizioni della politica.

Pochi giorni fa si è celebrata la Giornata della Memoria. In un recente articolo lei ha accusato Israele di cercare legittimazione attraverso «l’industria dell’Olocausto», strumentalizzandolo a fini di propaganda. Quale dovrebbe essere in tal senso il ruolo delle comunità ebraiche?

Come scrive il profeta Isaia a Dio non intessano i nostri dogmi religiosi: «Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero? dice il Signore. Smettete di presentare offerte inutili. Togliete il male dalle vostre azioni, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso». Ogni fede dovrebbe mirare alla giustizia. Israele sfrutta l’Olocausto per ripulire la falsa coscienza dell’Europa e l’attuale governo Netanyahu, il peggiore di sempre, si fonda sulla mentalità della rappresaglia, dell’infantilismo reazionario. Le comunità ebraiche europee si sono appiattite sulle posizioni del governo israeliano, per questo sono uscito da quella di Milano. Dovrebbero occuparsi dell’ethos ebraico, invece hanno sostituito la Torah con Israele facendo propria la psicopatologia dell’accerchiamento che Tel Aviv usa ogni qualvolta ne ha occasione, come nei recenti attacchi a Parigi. Devono alzare la voce.

Uno degli strumenti più efficaci per fare pressioni sull’occupazione israeliana è la campagna Bds, che ha come target anche gli artisti. Cosa ne pensa?

Ho ancora perplessità in merito al boicottaggio del mondo dell’arte e del sapere perché si potrebbe danneggiare chi, dentro Israele, sostiene il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. A differenza del Sudafrica, Israele è strategico per l’Occidente, che a livello politico continuerà a sostenerlo. Il Bds ha una forte legittimità, ma va ragionato nel caso di artisti e accademici, che spesso sono coloro che smascherano le bugie da Pinocchio di Netanyahu.