L’ordine di scuderia è sostenere che l’incontro è andato bene, clima sereno, orecchie tese al dialogo. Non è precisamente così. Arrivato al solo appuntamento veramente importante di questi scenografici ma vuoti Stati generali, quello col ringhioso neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi, Conte ha in effetti dispiegato tutte le sue notevoli doti diplomatiche. Camerateschi colpi di gomito prima che si alzi il sipario («Non ci meniamo però!»), sorrisoni a tutta mandata, una battuta salace nell’intervento introduttivo («Nel nostro piano c’è una norma che Bonomi voleva rubarci»).

Ma dietro la facciata la tensione è alta. Bonomi nella sostanza è andato giù durissimo e non si è limitato alla teoria generale. Ha messo sul piatto richieste pesantissime: «Chiedo immediato rispetto per la sentenza che impone la restituzione delle accise energia impropriamente trattenute dallo Stato». Una cosetta da 3,4 miliardi sull’unghia. La risposta del ministro Gualtieri, tra l’imbarazzato e lo stizzito, arriverà poco dopo: «Confindustria sa benissimo che lo Stato farà sulla sua parte sulle accise. C’è una questione tecnica ma la risolveremo».

A SUA VOLTA DIPLOMATICO, il presidente di Confindustria garantirà in serata in tv che con il premier c’è un «rispetto reciproco» ma che gli industriali «hanno il dovere di fare critiche costruttive e anche proposte». Inappuntabile se non fosse che le critiche in questione sono un cahier de doléances enciclopedico, dal quale non si salva quasi niente. Con tanto di frecciata al curaro: «Con qualsiasi disponibilità finanziaria, se non cambia la capacità dello Stato di scaricare a terra gli interventi non andremo da nessuna parte». Anche se un principio di disgelo c’è, sul piano quanto meno dei rapporti personali, Conte sperava probabilmente di ottenere qualcosa in più e nel suo intervento introduttivo aveva fatto il possibile per ottenerlo.

TRA LE RIGHE, DIETRO l’abituale retorica sugli straordinari risultati ottenuti convincendo l’Europa ad accettare il Recovery Fund, già adoperata in abbondanza la mattina in parlamento, il premier ha messo in campo tre registri diversi. L’allarme, prima di tutto. Con tutto l’ottimismo d’ordinanza, Conte ha fatto trasparire una situazione più che drammatica, con i consumi che non riprendono, la domanda raso terra, le esportazioni anch’esse alle corde, le previsioni all’unanimità apocalittiche. Poi l’ammissione di errori, ben più insistita e col capo cosparso di cenere di quanto solitamente l’inquilino di palazzo Chigi sia disposto a concedere. Infine e soprattutto la blandizie. Conte denuncia l’equivoco: «Dalla stampa sembra che questo governo abbia un pregiudizio nei confronti della libertà economica».

Nulla di più falso! Il premier cita anzi direttamente il padre del monetarismo: «Noi condividiamo la filosofia di Milton Friedman: l’obiettivo di un’impresa è produrre guadagno». Chiede di «farci prevenire delle osservazioni specifiche». Poi la frase per Bonomi più importante: «Siamo disposti a intervenire in punta di piedi quando c’è da offrire un sostegno alle aziende». In punta di piedi. Mettendo capitali senza pretendere di mettere anche becco.
Il punto è che, quando chiede unità nazionale politica, Conte lo fa per doverosa retorica. Ma all’intesa con gli industriali ci tiene davvero e moltissimo. Bonomi però non ha alcuna intenzione di offrire il suo appoggio a prezzi economici. Chiede molto. Vuole tutto.

TUTT’ALTRO CLIMA in parlamento ieri mattina. Lì Conte sapeva di avere il coltello dalla parte del manico. Dice pochissimo, nulla che anche un lettore mediamente informato già non sappia. Lascia cadere l’informativa sul Consiglio europeo di venerdì quasi come se fosse una concessione non obbligata. Evita il voto, dal momento che il vertice sarà in videoconferenza: dunque, per decreto, «informale». Tocca a Mario Monti, il cui governo varò la legge che obbligherebbe a votare l’indirizzo del parlamento prima dei Consigli europei, spiegare che non è così, che la legge imporrebbe invece il voto, che il vertice non è affatto «informale».

Poco male. Da ieri, in questo clima di «grandi e strutturali riforme» spetta al governo decidere quando i Consigli europei devono essere considerati tali a tutti gli effetti e quando «informali». Ma il vero punto critico è la dichiarata convinzione che il parlamento debba esprimersi solo a cose fatte, ad accordo concluso, potendo solo prendere o lasciare e senza poter dire la propria in corso d’opera. Concezione bizzarra della democrazia parlamentare…