Il premier Giuseppe Conte da Pechino assicura di essere «insoddisfatto» per come l’Egitto ha trattato il caso Regeni. Ieri dalle colonne di Repubblica la famiglia del ricercatore si rivolgeva direttamente a lui alla vigilia del colloquio con Al Sisi, chiedendo di «andare oltre ai consueti proclami e promesse» e di ottenere «una risposta, concreta, vera e definitiva» sulla fine di Giulio, sequestrato torturato e ucciso più di 3 anni fa dai servizi egiziani perché ritenuto una spia. Il premier, dopo il confronto con il generale, di fronte ai giornalisti ha indossato la faccia di circostanza e ammesso che «non c’è alcun concreto passo avanti», «non abbiamo strumenti reali per poter intervenire e sostituirci alla magistratura egiziana». Per l’ennesima volta l’Italia torna a mani vuote da un incontro con Al Sisi, «insoddisfatta» ma per nulla intenzionata di farsi rispettare. Il governo non ha ottenuto niente, quello che si sa di quella vicenda è merito delle indagini del Ros, dello Sco e della procura di Roma, del suo procuratore capo Giuseppe Pignatone che ha iscritto nel registro degli indagati gli ufficiali e militari egiziani presunti responsabili. Da Al Sisi è arrivato l’ennesimo sconcio comunicato ufficiale in cui il dittatore si descrive «molto turbato» della lettera dei Regeni e sottolinea «il totale sostegno alla cooperazione fra le istituzioni competenti egiziane e italiane».

Conte non ha messo sul tavolo alcuna minaccia di azioni forti, come il ritiro dell’ambasciatore o ritorsioni economiche. «Quello che posso fare – ha detto – è mettere in campo le mie iniziative, la mia pressione, l’influenza che il governo può esprimere nel rapporto con il governo egiziano e con Al Sisi. Non posso che continuare su questa strada e non mi fermerò finché non avrò riscontri oggettivi», cose che fin qui non hanno prodotto nulla, se non parole, come: «L’Italia non può avere pace fino a quando non avrà la verità».