Geminello Preterossi insegna filosofia politica e storia delle dottrine politiche all’Università di Salerno. Nel suo ultimo saggio (Ciò che resta della democrazia, Laterza) ha messo a fuoco la crisi della partecipazione e il parallelo affermarsi di un potere scollegato dalla rappresentanza. Chiediamo a lui di questa strana campagna elettorale per le amministrative, dominata dalla presenza televisiva del presidente del Consiglio che però dice «il voto per i sindaci non è importante, ci vediamo al referendum».

«Renzi sostanzialmente sta spiegando che lui è tutta la politica – comincia Preterossi – il suo è un perenne invito a darsi completamente a lui. Sarà lui a dirci quando dobbiamo tornare a votare. L’astensione l’aveva già incoraggiata nel referendum sulle trivelle, adesso ha in più l’obiettivo di ridimensionare quello che per lui può essere un risultato non positivo. Bisogna dire che la ricerca di una delega totale da parte del presidente del Consiglio fa tutt’uno con gli argomenti di alcuni suoi sostenitori, quando sul referendum costituzionale rinunciano del tutto al ragionamento politico. Abbiamo sentito, ad esempio da Cacciari, discorsi tipo “la riforma è pessima ma è meglio di niente”, oppure, peggio, “non c’è alternativa”. Siamo al grado zero, come se la politica fosse un concetto statico e non movimento. L’alternativa c’è sempre, si può provocare, esistono anche le elezioni e il governo può cambiare. Non c’è Renzi o il diluvio».
«L’astensione non è un mio problema» Renzi l’aveva già detto quando in Emilia votarono meno di 4 cittadini su 10.
Dovrebbe esserlo, invece, un problema, almeno con riguardo alla tradizione italiana. Ma anche negli Stati uniti – che hanno sempre conosciuto livelli di astensione simili – rinasce qualcosa proprio a partire da una partecipazione nuova, di alcuni settori e minoranze, vedi il fenomeno Sanders. Certo, se uno pensa che il potere debba chiudersi nel bunker e sperare che nessuno venga a bussare, allora fa bene a sperare nel disinteresse dei cittadini. Ragionamento miope: prima o poi ti vengono a cercare.
Non le pare che Renzi sia andato già oltre? Non l’ha sentito fare la campagna antipolitica da palazzo Chigi? Ha detto che con la riforma costituzionale spedisce i politici a lavorare…
Può essere che stia calcando la mano perché avverte degli scricchiolii. Un conto è fare la campagna antipolitica da fuori, allora riesci pure a scalare un partito e andare a palazzo Chigi. Un conto è farla dal governo, dopo aver fatto tante promesse. Il populismo dall’alto può servire alla logica del bunker, magari riesce a nascondere per un po’ che stai proseguendo con le ricette dell’Europa tecnocratica. Ma a un certo punto i cittadini si ricordano che sei a palazzo Chigi da due anni e mezzo. Secondo me la partita del referendum è ancora aperta.
La riforma costituzionale può curare questa crisi di partecipazione? Il governo lo sostiene.
Evidentemente è vero il contrario. La riforma introduce una stretta verticistica. È l’opposto della rigenerazione della rappresentanza di cui avremmo bisogno. Assistiamo a uno pseudo decisionismo craxiano fuori tempo massimo. Peraltro non in nome dell’autonomia della politica, ma con l’obiettivo di smontare il conflitto sulla disattivazione della prima parte della costituzione.
Vale a dire? Dobbiamo aspettarci altre riforma costituzionali, ancora più penetranti?
Lo vedremo, sono convinto che il nodo di fondo sia il costituzionalismo sociale. Con questa riforma e con la nuova legge elettorale il governo e chi lo presiede avranno il controllo del parlamento e degli organi di garanzia. I diritti sociali costituzionalmente presidiati potranno essere svuotati dall’interno. Ci aspettano pesanti e negative novità, temo, nel campo della sanità o della scuola e università.
I sostenitori della riforma ricordano che la prima parte della Costituzione non viene toccata.
Può dirlo solo chi ha una profonda incultura costituzionale, una visione ingegneristica della Carta. La prima parte della Costituzione ha bisogno di un certo equilibrio dei poteri e di un modello rappresentativo che sia centrale e vitale e possa fare da ponte con la società. Smontato quello, può crollare tutto. Lo dico pensando che modifiche si potevano e probabilmente si dovevano fare, ma appunto in senso opposto. Per esempio rafforzando gli elementi di democrazia diretta.
È davvero tutta responsabilità di Renzi? Non siamo alla coda di una strategia antipopolare cominciata quando alla crisi di Berlusconi si rispose evitando le elezioni come la peste?
Certo, e quel disegno politico – gestito all’inizio con mano ferma da Napolitano al Quirinale – è palesemente fallito. Monti non ha risanato il paese e non ha prodotto consenso nuovo. I 5 Stelle sono lì. Nel frattempo il meccanismo di legittimazione della rappresentanza è saltato. Il rappresentante se la prende con il rappresentanto e assistiamo alla guerra delle élite al popolo.
Anche l’istituzione cittadina è in crisi, i comuni non hanno più risorse, i sindaci sono all’impotenza. Renzi non dice un po’ una cosa vera, allora, quando sostiene che il voto di oggi conta poco?
In effetti in molte città abbiamo assistito a una gara a perdere, quasi a una fuga dal potere. Ma come nel caso di certi ragionamenti sulle riforme che richiamavo prima, quando si parte dall’idea che è impossibile immaginare un’alternativa, si finisce col chiamare i prefetti. A Roma hanno fatto così. E Renzi che fa? Prova forse a selezionare un gruppo dirigente all’interno del Pd? No, si rivolge ai commissari, anche lui ai prefetti. Chiama Cantone, che ormai si occupa di tutto. La politica sparisce e la riforma costituzionale fa la cosmesi di questa rinuncia. Oltre a tagliare gli spazi per chi è contrario, per chi vuole agire un conflitto. Per carità, la politica va avanti e se pure dovessero vincere i Sì al referendum non finirà tutto. Eppure c’è da essere preoccupati, perché un modello che neutralizza il conflitto politico e sociale può condurre a forme di autoritarismo.