Quello che resta dopo Genova 2001 è una buona sintesi della vita di chi oggi si trova tra i 30 e i 40 anni a vivere in Europa, tra l’Italia e le innumerevoli destinazioni fatte di borse di studio, dottorati, post dottorati e tutto quanto il precariato universitario possa mettere a disposizione in questo inizio di secolo.
Cecilia Ghidotti all’esordio con il romanzo Il pieno di felicità (Minimum Fax, pp. 220, euro 16) prova a raccontare quella fase della vita che non sembra né mai esaurirsi e nemmeno compiersi del tutto, quella sensazione di apertura verso il mondo che appare come un ripiegarsi sull’orlo del mai abbastanza rimpianto pianerottolo di casa.
Ciò che doveva essere la «generazione erasmus», l’inizio di una vita da globe-trotter prende così la forma di un precariato emotivo e professionale frustrante ed estremamente faticoso che nella migliore delle ipotesi ha trasformato anche la più sperduta università inglese in una sorta di anticamera di quella che fu la casa dei genitori unica e vera base di partenza oltre che sostanziale punto di arrivo ogni volta che il fiato manca.
Scrive in prima persona Cecilia Ghidotti raccontando le giornate a Coventry nel tentativo di tenere insieme un rapporto affettivo con le aspettative di un lavoro che assume sempre più i contorni dell’occasionalità.
Allo stesso tempo resta vivido il ricordo di Bologna dove tutto è partito: la prima volta fuori casa, gli studi, gli amici e con loro i riti di una convivenza fatta di prossimità e abitudini inseguite con desiderio e cura.

Il ritratto di una generazione, ma anche del suo stesso birignao che assume i toni sia del lamento come della condanna. L’impossibilità a uscire dai confini di un ironico nichilismo in cui il disagio è anche la consolazione.
Un fallimento sempre a metà, ma anche una colpa impalpabile che lascia sospeso ogni giudizio su cosa era giusto fare e forse va bene anche così ossia fare un po’ come viene e non pensarci troppo.
Lascia intendere e non affonda mai il colpo l’autrice, mimetizza con precisione la propria scrittura con il senso stesso di un’impossibilità che lascia il male e il bene sullo sfondo. Al centro resta come un moloch invalicabile un bisogno di consolazione infinito, un sacrificio verso un dolore che è scomparso dall’ordine quotidiano ma che riemerge costante nelle aspettative di una generazione che fu leggera nei visi e nei propri sorrisi.

Un felicità ormai assurda e ora condannata ad un’altrettanta assurda mediocrità, senza nemmeno l’onore della fatica. Cecilia Ghidotti con forza letteraria non banale definisce – lasciandolo sullo sfondo – la paura di chi fu a Genova nel 2001, e nei suoi dintorni ed oggi si trova alle prese con bisogni banali quanto essenziali: un rapporto di coppia stabile, un figlio, una casa, un lavoro, un quartiere e ancora una comunità con cui confrontarsi e darsi misura.
Un mondo che non sia in sostanza falsato da un controllo che lascia spazio solo alle masturbazioni digitali e da un’assenza burocratica ed obbligatoria che trasforma le geografie esistenziali in non luoghi di treni ad alta velocità o ad aerei low cost. Il pieno di felicità diventa così non più l’obiettivo finale, il raggiungimento di un desiderio, ma il bagaglio necessario per affrontare un deserto di cui ancora non si vede la fine.