La chiave per capire le intenzioni di Pierluigi Bersani, alla fine della sua quinta giornata di incontri, è in una frase pronunciata in conferenza stampa: «Qui si stanno dicendo delle cose che dirò al paese». Qui, cioè nelle consultazioni. Al paese, cioè non solo a Giorgio Napolitano quando, finalmente, domani o dopo, tornerà al Quirinale a riferire.

Questo significa che il presidente del Consiglio pre-incaricato ha intenzione di presentare le sue conclusioni in parlamento. Per verificare nell’unica sede possibile se la sua proposta di governo ha o non ha la fiducia alla camera e al senato. Prima alla camera (dov’è scontata) e poi al senato (dov’è tutta da costruire) visto che l’ultimo governo ha fatto il contrario e vige la regola dell’alternanza.
Ha ragione Bersani: la prassi oltre che la lettera della Costituzione (art. 94) glielo consentono. Solo il conteggio dei voti espressi sulla base delle dichiarazioni programmatiche potrà dire se il governo Bersani può partire o meno. D’altra parte l’incarico che il capo dello stato ha affidato al segretario del Pdl è quello di «verificare» l’esistenza di una maggioranza, e dunque solo il segretario del Pd al termine del suo lavoro saprà dire se la verifica va portata fino in fondo o se è il caso di fermarsi prima. Napolitano, però, ha fatto capire di avere tutte altre intenzioni.

Ha chiesto una maggioranza «certa» e preventiva. Gli unici due precedenti di pre-incarico, quelli dell’ottobre ’98 ai quali Napolitano si è esplicitamente richiamato, raccontano che in entrambi i casi fu il presidente del Consiglio pre-incaricato a «parlare» una volta tornato al Quirinale. Prodi scelse di rinunciare, D’Alema andò avanti, chiese e ottenne la fiducia. Aveva, però, già in tasca le firme dei capigruppo della nuova maggioranza in calce a un documento in otto punti. Bersani non porterà nulla del genere al Colle. Al massimo la disponibilità di tutti i partiti, escluso il Movimento 5 Stelle, di dare vita alla convenzione per le riforme, la scatola magica che nelle intenzioni del segretario Pd dovrebbe contenere una più fluida maggioranza di governo. (Con tutti i rischi che avrebbe una simile «convenzione», interna ma anche esterna al parlamento – dovrebbero esserci le regioni, le parti sociali…).
Stando così le cose è assai probabile che il confronto finale Napolitano-Bersani non sarà facile. Il capo dello stato ha lasciato ben intendere di non voler concludere il suo mandato con un buco nell’acqua, incaricando un premier senza fiducia. La sua prima scelta è quella che ha sempre teorizzato nel settennato, le larghe intese – e quando ha potuto anche praticato con «l’invenzione» del governo Monti. Nel caso la distanza tra le due posizioni si confermasse, non si può escludere che il presidente della Repubblica metta sul piatto le sue dimissioni anticipate.

Un gesto che pure era stato atteso nei giorni scorsi, in quanto avrebbe reso più facile l’eventuale ricorso alle urne a giugno in caso di insuccesso di Bersani. E che però, messo in pratica in questo momento, sposterebbe immediatamente il terreno di confronto dal governo al Quirinale. Se Bersani oggi può dire al Pdl «prima fatemi fare il governo poi parliamo del nuovo presidente della Repubblica», domani in caso di dimissioni anticipate di Napolitano le due trattative dovrebbero procedere di pari passo. Aumenterebbero le possibilità di veder salire al Colle, e per sette anni, un candidato gradito a Berlusconi in presenza di un governo, comunque gracile, guidato dal segretario del Pd.
Nelle consultazioni di ieri, Bersani ha preso atto delle «distanze» tra la sua proposta e quella del Pdl. Ha visto la Lega e i 10 senatori del gruppo Grandi autonomie e libertà presentarsi assieme ad Alfano al colloquio, segnalando così un’unità di intenti. Ha però anche ascoltato Maroni insistere sull’esigenza di dare presto al paese «un governo politico».

Il governo che c’è ieri ha cominciato a sfarinarsi in diretta tv, alla camera. L’ennesima brutta figura dei tecnici dimostra anzi che un tentativo va fatto perché alle elezioni anticipate si andrebbe praticamente senza guida. Bersani ha chiarito la sua via: verificare se i partiti accetteranno di prendersi responsabilità diversamente «graduate» per «appoggiare, sostenere, consentire» e persino «opporsi in un quadro di condivisione delle esigenze di riforma» al suo governo.

È un tentativo che può essere fatto solo nell’aula del senato. E che richiede molto coraggio per essere portato fino in fondo. Se andrà male il segretario del Pd verrebbe rapidamente sostituito. Al massimo potrebbero lasciarlo presiedere la «convenzione».