Sono passati nove anni da quando Narendra Modi, allora chief minister dello stato del Gujarat, chiese un visto d’entrata per gli Stati uniti, invitato a parlare davanti alla comunità indo-americana di New York al Madison Square Garden.

Era il 2005 e NaMo, nelle cancellerie del mondo occidentale, vantava una reputazione da appestato. Solo tre anni prima, gli scontri interreligiosi passati alla storia come Gujarat Riots, lasciarono per le strade del feudo di Modi due migliaia di morti trucidati, risultato della furia dell’estremismo hindu contro la comunità musulmana: almeno due terzi delle vittime, secondo le ricostruzioni ufficiose, erano di fede islamica. Una carneficina perpetrata – queste le accuse degli inquirenti indiani per un caso ancora aperto in sede giudiziaria – nella parziale connivenza, e totale inazione, delle autorità del Gujarat. Il retroterra culturale, in fin dei conti, univa le squadracce della Sangh (l’unione delle formazioni politiche extraparlamentari dell’ultrainduismo) al curriculum dell’allora chief minister, cresciuto nelle fila della Rashtriya Swayamsevak Sangh sin dall’età di otto anni.

Opponendo alla richiesta di visto diplomatico una legge passata nel 1998 in materia di «gravi violazioni alla libertà religiosa» a carico di funzionari stranieri, l’amministrazione Bush lasciò Modi alla porta. Nove anni dopo, il fu (presunto, fino a prova contraria) carnefice Modi è atterrato a New York accolto con gli onori dovuti al primo ministro del secondo paese più popoloso della Terra. Il fu quadro della destra ultrainduista indiana oggi è il campione dell’ultracapitalismo asiatico, l’Uomo del Fare di Delhi, il leader che nelle ultime settimane ha parlato di investimenti e partnership strategiche a tu per tu con Shinzo Abe in Giappone (portando a casa 35 miliardi di dollari in fondi per lo sviluppo) e Xi Jinping in India (20 i miliardi accordati dal presidente cinese per rilanciare l’economia del vicino indiano).

E al Madison Square Garden, alla fine, ci andrà oggi, davanti a 18mila rappresentanti della comunità indiana newyorkese che, di tasca loro, hanno pagato l’affitto dello spazio (1,5 milioni di dollari, raccolti in poco più di 24 ore).

I cinque giorni della suo primo viaggio americano, seguiranno l’imperativo che guida la politica estera di questa nuova India «Modified»: per portare soldi nel paese, amico di tutti e nemico di nessuno. Nonostante la stampa internazionale tenti in ogni modo di tirare per la giacchetta il nuovo primo ministro indiano – ora inserendolo nelle truppe della crociata anticinese al fianco di Abe, ora accusandolo di «intelligenza col nemico» dopo la cordiale visita di Xi – Modi sta dimostrando un pragmatismo tutto asiatico nell’intrattenere rapporti con la comunità internazionale. Sa che gli equilibri mondiali si sono fatti più caotici, rispetto alla sicurezza ideologica della divisione a blocchi contrapposti, e che in questo ambiente multipolare occorre stringere molte mani sapendo, soprattutto, quando mollare la presa.

L’essenza del Modi-pensiero in politica estera è rappresentata perfettamente dall’ultima campagna governativa lanciata proprio giovedì scorso. «Make in India», presentata davanti a una platea di 500 amministratori delegati globali – da Mukesh Ambani di Reliance ai delegati giapponesi di Suzuki – è il tappeto rosso che l’amministrazione Modi ha steso di fronte agli imprenditori di tutto il mondo. Andate a vendere un po’ dove vi pare, ma venite a produrre in India, ché qui si lavora per voi.

L’opera di snellimento delle procedure burocratiche, l’abbattimento delle soglie di azionariato per joint venture, le agevolazioni fiscali e il «counseling» offerto dalla piattaforma di «Make in India» (andate a vedere il sito creato ad hoc, makeinindia.com), sono il biglietto da visita col quale Modi si presenterà, in questi giorni, negli uffici di – tra gli altri – IBM, Boeing, Google, Goldman Sachs, General Electric, Citigroup, Pepsi, Mastercard, Caterpillar. Tra pranzi e colazioni, Modi incontrerà 17 business leader di questo calibro. In cinque giorni.

Ecco, c’è anche il problema del cibo. Narendra Modi, fervente induista («brahmacharin», addirittura, cioè colui che prende il voto di castità come pratica spirituale), in questi giorni si imporrà uno strettissimo regime di digiuno, per onorare la festività hindu di Navratri (Nove Notti, in hindi, dedicate all’adorazione della dea Shakti). Condizione che ha creato un certo imbarazzo nel protocollo della cena privata con Barak Obama, fissata per la sera del 29 settembre.

Non è dato sapere cosa si mangerà alla Casa Bianca, ma si può immaginare il tenore delle chiacchiere tra i commensali.

Sul tavolo ci saranno questioni spinose come le regolamentazioni relative ai foreign direct investment in entrata in India (con le trattative per un accordo bilaterale in stallo dal 2008); la retromarcia di Modi rispetto all’apertura del suo predecessore Manmohan Singh all’entrata di multinazionali nel mercato della rivendita al dettaglio – che forse Modi sarà costretto a ritrattare, come gesto di distensione verso i potenziali investitori Usa; la mancata risposta dell’India all’appello internazionale di Obama per un coinvolgimento nell’offensiva anti-Isis, questione spinosa nella politica del subcontinente, con equilibri fragili tra musulmani e hindu; leggi sul rispetto della proprietà intellettuale in India; progetti di partnership per lo sviluppo del nucleare civile; il controverso ruolo indiano nel dirottamento degli ultimi negoziati in seno al Wto; la ricerca di consenso per l’agognato seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu,.