Il delegato artistico Thierry Frémaux continua a ripetere che ama il cinema e che il «suo» festival di Cannes ne è «un bastione» in difesa del cinema. Osservando il suo modo di comportarsi viene da pensare però che prima del cinema ami il potere che questo gli permette di esercitare. E non si tratta solo delle «ripicche» da bambini bizzosi come l’altro giorno, alla vigilia dell’inaugurazione, annunciare il premio Lumière del festival di Lyon – da lui stesso diretto – a Jane Campion, in modo da «labelizzare» un’autrice che considera «di Cannes» – sempre una sua definizione – e che non ha potuto avere perché il nuovo film della regista neozelandese, The Power of a Dog è targato Netflix – proprio come l’altra immaginiamo per Frémaux dolorosa rinuncia, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, entrambi dati a Venezia. Non che sottolineare il problema delle piattaforme rispetto alla vita del cinema, il loro ruolo distruttivo accelerato dai mesi di chiusura pandemica non sia importante: ciò che non funziona, o meglio che non produce nulla, è l’atteggiamento di forza (?) come se non selezionare a Cannes i loro film cambiasse lo stato delle cose. Ovvio che no, perché dei festival le grandi piattaforme ormai possono serenamente farne a meno, e di tutti Cannes compreso, mentre affrontare in modo politico la questione implica altri passaggi, altre scelte, economiche, finanziarie, di ripensamento della filiera cinematografica in modo da salvaguardarne le potenzialità. Del resto per Frémaux questi due anni di pandemia che ha costretto lo stesso festival di Cannes a annullare l’edizione 2020, che ha devastato il sistema cinematografico mondiale, che ha messo tutti coloro che vi lavorano non garantiti in seria difficoltà, sembrano non essere passati. Ciò che scrive il quotidiano «Liberation» a proposito di Annette – altroché embargo! Le recensioni e non solo di Annette sono ovunque già da giorni – citando una frase del precedente Carax, Holy Motors vale per la sua idea di festival, ma non necessariamente in modo positivo. «Vorremmo rivivere sempre la stessa cosa, rifare quello che amiamo…».

COSA AMA Frémaux? Il potere, si diceva, ed esercitarlo, bersaglio privilegiato i giornalisti accreditati, tranne quelli a cui lui stesso concede qualche piccolo privilegio – cioè poter lavorare dignitosamente, che di lavoro si tratta e per molti, moltissimi di poter guadagnare dopo la lunga crisi. Così eccoci di nuovo nell’orizzonte incerto ancora non post-pandemico, tra le assurdità dei tamponi gratuiti offerti dal festival impossibili a prenotare (prezzo in farmacia: 25 euro), e peraltro inutili visto che in sala (capienza 100%) si entra senza – servono solo per accedere al Palais – alle proiezioni «segrete»,riservate a pochi, a cui si aggiunge il neo-sadismo delle prenotazioni dei posti online permesse solo un giorno prima della proiezione, alle 7 del mattino, col sito che si impalla: versione aggiornata degli Hunger Games.
Mi chiedo: a cosa serve tutto questo a fronte anche di un numero di accreditati che è meno della metà? Cosa deve dimostrare Frémaux, e soprattutto: l’amore per il cinema che c’entra?

L’EMBARGO – spiegazione ufficiale di questa scelta due anni fa – lo abbiamo visto è un pretesto persino sfacciato. Dunque? Probabilmente Frémaux considera la maggioranza dei giornalisti un fastidio obsoleto, inutile, e mentre vanta di scelte politicamente corrette accordate alle necessità dei tempi – le donne, il green – ostenta un’arroganza adesso più che mai insopportabile verso chiunque: dai film bloccati un anno e già invecchiati, agli accreditati peraltro neppure supportato (semmai potesse giustificare) da una gran selezione mondiale; anzi mai come questa edizione il festival è di marca tutta francese.
Difendere il cinema, amarlo, sostenerlo dovrebbe avere altre forme perché funzioni, perché ci si creda: ci vuole cura, attenzione, c’è bisogno di un diverso sguardo sul mondo, di una relazione con la realtà che si vive che dalle parti del Palais mancano. Peccato.