È uscito da Vita e Pensiero il secondo volume di Giustizia e letteratura (pp. 831, euro 38), che raccoglie gli atti, talvolta leggermente rielaborati, ma più spesso fedeli tout court agli interventi originari, del secondo ciclo di seminari organizzato dal Centro Studi Federico Stella dell’Università Cattolica di Milano fra il 2011 e il 2013 (al ciclo precedente era stato dedicato il primo volume, pubblicato nel 2012 sempre da Vita e Pensiero).
Gli stessi curatori (i docenti di diritto penale Gabrio Forti, Claudia Mazzucato e Arianna Visconti) dichiarano, nei loro interventi, l’idea che vi sta al fondo: allargare la coscienza di sé del giurista, riconoscere la complessità delle cose umane e comprendere che il bene e il male non sono mai distribuiti esclusivamente da una parte sola, bensì nella lotta contro il male è concentrato il senso di ricerca della vita di ciascuno di noi. Del resto, il fatto di riguardare l’uomo è comune al diritto e alla letteratura; e proprio la consapevolezza di questa comunanza è capace tanto di conferire omogeneità, nell’ispirazione che li anima, a tutti i saggi dai quali il libro è composto, sia di far parlare fra loro, in un ideale dialogo di rimandi e risonanze, autori altrimenti lontani e diversissimi: quali ad esempio Manzoni, Collodi, Sciascia, Kafka, Melville, Primo Levi, Etty Hillesum. Fino a coinvolgere nel dialogo anche il cinema, in particolare attraverso l’opera di Stanley Kubrick che, a sua volta, della letteratura è stato grande debitore.
Ma l’orizzonte di questo volume (come del precedente) di Giustizia e letteratura è perfino più vasto, a ben vedere, ed è collocabile perfino al di là, forse, di quanto dichiarato dai suoi curatori. In primo luogo, non è vero solo che la letteratura allarga la coscienza del giurista, ma è vero anche il contrario: anche le opere letterarie possono aprirsi a significati e risvolti inediti, grazie allo sguardo del giurista, e a confermarlo è la lettura di ciascuno dei saggi del volume. In secondo luogo, e soprattutto, ad accomunare tutti i saggi è uno spirito umanistico nel senso più nobile dell’accezione. In un’epoca di crescente specializzazione, nella quale aumentano sempre più le competenze tecniche e scientifiche ma diminuisce altrettanto a dismisura la capacità di analizzare criticamente la realtà nel suo complesso; in un’epoca nella quale solo l’economia e l’individualismo sembrano dominare ogni cosa, a discapito della poesia (intesa come poesia del mondo, contrapposta alla sua prosa), i cicli seminariali organizzati dal Centro Federico Stella, da cui Giustizia e letteratura trae origine, sembrano percorrere la strada esattamente opposta, a suo tempo indicata da Forster: «connect, only connect». E qui risiede, in ultima analisi, la possibilità di arricchimento reciproco fra diritto e letteratura: nella capacità di tessere fili fra l’uno e l’altra, nell’apertura alla contaminazione.
Da questo punto di vista, ha ragione Gabrio Forti, nei suoi interventi su Pinocchio e Kafka: il diritto ha una propensione troppo forte a dimenticare l’uomo, il quale rischia di scomparire dietro l’eccessivo tecnicismo, dietro la schematicità delle regole e delle norme; e contro tale schematicità – che finisce per svilire il diritto a pura e semplice astrattezza, se non a puro e semplice potere (davanti al quale, nel Processo di Kafka, Iosef K. si sente escluso ed estraneo) – solo la letteratura può offrire una salvezza, nella sua genetica attitudine a recuperare le individualità, attraverso il racconto delle storie dei singoli. In altre parole: se il diritto corre il pericolo dell’astrattezza (e questo pericolo riguarda la giustizia civile non meno di quello penale, per quanto i discorsi svolti lungo l’intero volume di Giustizia e letteratura riguardino perlopiù quest’ultima), la letteratura è invece sempre immane concretezza (per usare le parole del titolo di un libro dello stesso Forti). Vengono in mente al riguardo le parole di Carlo Maria Martini, in un prezioso dialogo con Gustavo Zagrebelsky di alcuni anni fa: il senso di giustizia nasce da un’ingiustizia subìta; e poiché anche l’ingiustizia è sempre fatta di immane concretezza, ecco allora che solo la letteratura può restituire il diritto alla dimensione che dovrebbe essergli propria, quella appunto della giustizia. Ma occorre, a questo fine, che il diritto cambi, innanzitutto, la sua postura: è necessario cioè che il diritto si predisponga ad ascoltare le singole storie di chi gli si rivolge, con cura e con pazienza.
Proprio al tema della pazienza è dedicato un piccolo splendido saggio di Gabriella Caramore, pure appena pubblicato (Pazienza, Il Mulino). Cura e pazienza coincidono, dice Caramore, perché l’una non può darsi senza l’altra; e lo spiega benissimo, sviluppando ulteriormente il discorso, Claudia Mazzucato nelle sue pagine su Kubrick. «Al diritto – scrive Mazzucatospetta la responsabilità di salvare dall’annullamento e dalla condanna dell’oblìo le ingiustizie, raccontandole»; e raccontare le ingiustizie significa prestarvi attenzione, «grazie a una sensibilità ricettiva emozionabile». Si tratta di immaginare un’idea diversa di giustizia, se non di una vera e propria teoria di giustizia alternativa: una giustizia la quale – attraverso la narrazione – si ponga il fine precipuo non di punire, bensì di sancire, sul presupposto che nel sancire risieda il vero atto di giustizia, intesa come «un ricordare che si erge contro il dimenticare e il ripetere» (come dire: ricordare equivale a salvare, mentre condannare equivale a dimenticare). Una forma di giustizia riparativa dunque, la cui immagine simbolica potrebbe essere quella dell’ago e del filo che cuciono, anziché quella della bilancia che soppesa; una giustizia, sotto questo profilo, che non aspiri a presentarsi «come approdo», bensì come «un passaggio, un tramite, per rimettere in movimento: il ricordare che il fatto lesivo non avrebbe dovuto accadere… e affermarne l’irripetibilità costituisce un richiamo che impegna la ’ricettività’ e la motivazione di chi lo riceve».
I promessi sposi e Pinocchio rappresentano due modelli letterari di questa possibile giustizia diversa, nell’interpretazione che ne offrono, in particolare, il penalista Luciano Eusebi (quanto ai Promessi sposi) e il sociologo Giovanni Gasparini (quanto a Pinocchio). La storia di Renzo e Lucia, addirittura, costituirebbe un esempio paradigmatico di giustizia riparativa, nei suoi percorsi di progressiva riconciliazione rispetto ai mali sofferti e nella disponibilità, che Renzo e Lucia maturano nel corso della storia (che è una storia di formazione), al perdono gratuito. E così anche Pinocchio, dal canto suo, può essere letto come una parabola sul perdono: «Nell’alternanza di cadute e riprese che contrassegna la storia del burattino, elemento costante è il riconoscimento da parte sua delle proprie carenze ed errori che si unisce alla speranza di essere perdonato, di trovarsi riconciliato con le persone più care, il padre Geppetto e quella specie di mamma che sempre più nello scorrere del racconto diventa la Fata dai capelli turchini. Così, chiedere perdono e accordare perdono appaiono come la strada maestra e assurgono a valori di fondo dell’itinerario raccontato da Collodi».
Non è detto però, va aggiunto, che il perdono debba essere l’unico senso possibile di percorsi di riparazione ispirati a teorie alternative della giustizia, quali quelle che attraversano Giustizia e letteratura. Al contrario, lo stesso Primo Levi (e come lui, più di recente, Rithy Panh, nella sua autobiografia di vittima dei Khmer rossi cambogiani, L’eliminazione, che potrebbe costituire oggetto di riflessione in un futuro ciclo di incontri del Centro Studi Federico Stella) dimostra, a livelli sublimi, che la domanda di giustizia chiede solo di essere raccontata e di essere ascoltata, laicamente; e sarebbe già molto se dalle narrazioni e dal loro ascolto potesse scaturire il superamento di paure e rancori, di ossessioni reciproche. Passa per tale via l’emancipazione dal ruolo di vittima nel quale, chi subisce ingiustizie, è potenzialmente destinato (per effetto degli schemi processuali) a rimanere recluso per sempre.