Chi ha il potere a Lecce? Salvatore Petrachi, l’ex poliziotto protagonista del romanzo di Daniele Rielli Lascia stare la gallina (Bompiani, pp. 656, euro 20), non avrebbe dubbi: il potere ce l’ha «il Salento che conta». E cioè la cerchia di individui tra i quali intende farsi strada, una specie di massoneria, in grado di manovrare l’economia, la politica, le istituzioni, la polizia, e che agisce attraverso una rete di rapporti informali, fondati sullo scambio di favori e cementati dalla consapevolezza di essere, a scapito dei comuni mortali, una casta feroce e intoccabile.

Il romanzo di Rielli è praticamente onnipresente in questi giorni nelle vetrine delle librerie del Salento. Pare aver incrociato un bisogno particolare di questo pezzo di Italia di essere narrato nei suoi aspetti deteriori, quasi a dispetto dello stereotipo confezionato dal marketing turistico. Il Salento di Rielli è un piccolo mondo feroce, nel quale la prima regola per emergere è imparare a godere delle iniquità, e la seconda è accettare i costi umani e morali che ogni scalata al potere comporta. Rielli, scrittore sotto lo pseudonimo «Quit the Doner» di alcuni tra i reportage narrativi più letti sul web, è oggi uno dei pochi che si occupa di raccontare la provincia italiana, un’entità meta-geografica della quale l’industria culturale sembrava essersi disinnamorata, a dispetto di una tradizione narrativa, giornalistica, e anche accademica, di primo piano (Piovene, Flaiano, Pasolini, De Martino).

Il Salento è anche il luogo dove un gruppo di sociologi e ricercatori si è occupato di indagare la struttura e il funzionamento del potere locale, con risultati che somigliano in maniera sorprendente alla visione che del potere ha il protagonista di Lascia stare la gallina.

Il potere dell’informalità

«Chi ha il potere a Lecce?», eco del «Who governs?» di Robert Dahl, è infatti anche la domanda da cui prende le mosse Il salotto invisibile, la ricerca curata da Stefano Cristante, Valentina Cremonesini e Mariano Longo, terzo volume della saga sociologica di «Smallville» (nome con il quale nella ricerca ci si riferisce alla piccola città di Lecce), pubblicata da Besa (pp. 450, euro 30).

I tre docenti hanno ricostruito attraverso decine di interviste a cittadini comuni, avvocati (nel Salento sono 6,2 ogni mille abitanti, nel resto d’Italia 3,8), giornalisti, massoni (a Lecce operano 16 logge massoniche) ed esponenti rilevanti dell’economia locale e delle famiglie aristocratiche più in vista, le dinamiche secondo le quali il potere è distribuito e viene esercitato a Lecce. Ne risulta un sovrapporsi di livelli, rappresentati dalla metafora del «salotto» come luogo informale della discussione e della decisione, in grado di assumere all’occorrenza gradi diversi di esclusività: c’è il salotto visibile, corrispondente al centro storico cittadino, dove il potente e il cittadino comune si incontrano e conversano all’ombra dei bassorilievi barocchi, nel quale la prossimità consente al povero di segnalare urgenze personali, necessità particolari, e spesso riceverne soddisfazione; i salotti ad accesso limitato, luoghi «dove il potere si tramuta in governance», animati da un’élite che tiene insieme le famiglie più influenti, i professionisti più in vista e i funzionari e i politici con ruoli decisivi nell’amministrazione cittadina e provinciale.

Ricambi generazionali

A questo salotto, i cui protagonisti sono decantati dai media locali come una sorta di jet set ultraprovinciale, si accede per invito: le occasioni informali, non meno importanti dei rituali istituzionali, sono ricorrenze, momenti di socialità, fino ai party della «Lecce bene» nella cui atmosfera rilassata accade siano messe a punto decisioni di interesse pubblico e vengano fagocitate e testate le energie nuove necessarie al ricambio generazionale; e poi c’è il salotto invisibile, dispositivo sociale inafferrabile, fondato sulla riservatezza e su un accesso esclusivo, «custode della continuità storico-antropologica della città di Lecce», nel quale dispiegano la loro forza persuasiva la appartenenza all’aristocrazia cittadina e al mondo della rendita, ai vertici istituzionali (nelle mani dei conservatori dal dopoguerra) oltre che gli apici dell’imprenditoria e della finanza cittadina.

Il salotto invisibile agisce indirettamente, secondo rituali cortigiani consolidati nei secoli vissuti da Lecce in «assenza del sovrano», quando la città e le sue famiglie, pur sottoposte ad autorità terze, raramente ne ricevevano la visita, restando di fatto l’unico potere in servizio permanente. Il salotto invisibile è ancora oggi in grado di «tradurre i cambiamenti esterni in iniziative non conflittuali con la tradizione della città», e di «respingere gli intrusi, cioè coloro che non posseggono un pedigree sociale adeguato o coloro che dimostrano di voler accelerare i ritmi e le prassi».

Il metodo di lavoro di Cristante, Longo e Cremonesini, che trova ispirazione nelle ricerche dei coniugi Lynd nelle Middletown americane degli anni Trenta del Novecento, si presta ad essere esportato in altre città, per consentire una più profonda conoscenza di quell’oggetto misterioso che è il potere nella provincia italiana. Anche perché, come detto da Giandomenico Amendola in occasione della presentazione del saggio, «la sociologia può tornare a creare coscienza collettiva», facendoci conoscere, per superarli, quei tratti di intollerabile arretratezza che caratterizzano il potere in Italia, magari per fare in modo che, da Nord a Sud, non siano solo i Totò Petrachi gli unici in grado di aspirare ad una qualche forma di mobilità sociale.