«Di fronte alla politiche di austerità serve una resistenza nel nome del patrimonio costituzionale comune dell’Europa», sostiene Agustín José Menéndez, giurista spagnolo, ricercatore del Centro di studi europei dell’Università di Oslo. Autore di numerosi studi (in italiano è apparso “La peculiare costituzione dell’Unione europea”, Firenze University Press, scritto con John Fossum), è uno dei curatori di una fondamentale raccolta di testi legali – trattati, direttive, sentenze – relativi alla crisi economico-finanziaria. Quel patrimonio comune è «amministrato» dalle Corti costituzionali nazionali e dalla Corte di giustizia dell’Ue.
«Uno dei passaggi fondamentali di questa fase – ragiona Menéndez – è stato a febbraio, quando la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sui piani della Bce annunciati nel famoso discorso di Mario Draghi a Londra, quello del “whatever it takes”, nel luglio 2012 (la possibilità di attuare le Omt, operazioni monetarie definitive, le misure concrete in cui consiste la “salvaguardia dell’euro con ogni mezzo”, cioè l’acquisto di titoli del debito pubblico, ndr). I giudici di Karlsruhe hanno detto che i piani del governatore sono incompatibili non solo con la Costituzione tedesca, ma anche con i trattati europei, perché la Bce non può fare politica fiscale. Per arrivare a questa conclusione, la Corte ha reinterpretato completamente la propria giurisprudenza, assumendo che il valore fondamentale della Costituzione tedesca, quando si tratta di questioni europee, è la stabilità monetaria. Bisogna cogliere il passaggio in tutta la sua portata: il nuovo canone di costituzionalità di Karlsruhe in tema di Europa ruota attorno al valore della stabilità della divisa. Peccato che nessuno sappia davvero cosa significhi stabilità monetaria: è un concetto problematico, senza contenuto oggettivo. Ciò che attualmente si interpreta come stabilità monetaria ha dimostrato che non porta con sé stabilità finanziaria».

La sentenza di Karlsruhe è un’ipoteca pesante sull’efficacia del piano di Draghi per affrontare la crisi e riattivare l’economia?

Certamente. La Corte tedesca ha assunto una decisione di enorme rilievo politico, non senza una discussione interna: c’è stata l’opinione dissenziente di una giudice che ha sostenuto che non avrebbero dovuto decidere nulla per evitare il rischio di determinare, attraverso una sentenza, una situazione politica che rischia di determinare la fine dell’Unione monetaria. Ma è finita in netta minoranza, e i suoi colleghi hanno deciso eccome.

Eppure quella decisione era stata interpretata da più parti come una dimostrazione di self restraint di Karlsruhe, perché aveva scelto di mandare le carte a Lussemburgo, alla Corte di giustizia Ue.
È vero che i giudici tedeschi hanno chiamato in causa la Corte Ue attraverso il rinvio pregiudiziale, ma avendo di fatto già risolto il caso: non solo dal punto di vista del diritto tedesco, ma anche da quello comunitario! In sostanza, Karlsruhe ha detto ai giudici europei come va interpretato correttamente il diritto della Ue, accusandoli implicitamente di non saperlo fare. I giudici tedeschi hanno, di fatto, già anticipato il loro orientamento, dicendo che secondo loro il «whatever it takes» di Draghi non è conforme alle regole: quest’opinione ora grava come un’enorme spada di Damocle sui magistrati europei.

Qual è la sua lettura sul piano politico di queste mosse di Karlsruhe?

C’è stato un compromesso fra i giudici tedeschi sull’idea di guadagnare tempo per consentire ai governi e alla Bce di assumere scelte che riducano la portata dello scontro in atto. Quello che la Corte tedesca non accetta è che Draghi faccia politica fiscale al di fuori di ogni controllo democratico: spera, dunque, che siano i governi ad agire in modo che la Bce non debba attivare il meccanismo delle Omt. Un meccanismo che può funzionare solo se Draghi annuncia acquisti illimitati di titoli pubblici: ma l’assenza di limite è ciò che i giudici tedeschi – e la Bundesbank – non accetteranno mai. E se la potenza di Draghi ha un limite, il «whatever it takes» muore e si spalancano di nuovo le porte agli attacchi degli speculatori.

L’ostilità tedesca nei confronti della Bce come attore della politica fiscale ha due componenti molto diverse: c’è quella di chi non vuole che i propri soldi vadano ai fannulloni del Sud e quella di chi non vuole che Francoforte faccia politica al di fuori di qualunque controllo democratico.

Credo che non si debbano confondere due ideologie apparentemente simili, ma in realtà diverse: ordoliberalismo e neoliberismo. Chi oggi in Germania contrasta Draghi «da destra», lo fa in nome dell’ordoliberalismo e non del neoliberismo: crede, cioè, nel ruolo dello Stato come creatore dell’ordine artificiale del mercato. Ed è a favore di rigide norme anti-trust. Perciò, la destra «anti-Draghi» ha elementi in comune con la sinistra: essenzialmente, una giusta diffidenza strutturale nei confronti della concentrazione di potere economico-politico nella Bce. Non solo. Un punto di vista comune c’è anche nel non considerare le attuali misure adottate in sede europea, con il consenso determinante della Bce, come forma di solidarietà: i piani di assistenza finanziaria ai Paesi in crisi dell’Eurozona non hanno nulla a che vedere con la solidarietà verso quei Paesi, perché i soldi finiscono tutti o quasi nelle casse delle banche e, quindi, dei creditori tedeschi, francesi e olandesi. Nel caso di Cipro, dove i creditori erano prevalentemente russi, non si è intervenuti. Non credo sia un caso.