fragilità

Le parole che ci salvano (Einaudi, pp. 248, euro 14) può essere considerato una summa delle riflessioni svolte da Eugenio Borgna sui temi che costituiscono la sua personale forma di resistenza all’arroganza contemporanea: la fragilità, costitutiva della nostra condizione umana; la necessità di parlarsi, in un mondo popolato da una prevalenza di «egolatri» che guardano agli altri soltanto come strumenti utili al perseguimento dei propri fini; la responsabilità; la speranza per un presente migliore.

La gentilezza resistente di Borgna non è mai ignara della fondamentale ambivalenza che pulsa nelle azioni umane, della compresenza di spinte contrastanti, del male che si intrecciaal bene nel passaggio in questo mondo, ma soffia con delicatezza e al tempo stesso con ferma risoluzione sugli aspetti virtuosi spesso messi in ombra dall’avvincente quanto spietato spettacolo della battaglia, del sangue, della sopraffazione, della morte. Non è un caso se il Satana di John Milton ha più impatto di Dio nel Paradiso perduto, se i thriller esercitano una fascinazione così potente sugli spettatori, se nel tourbillon del web un commento acido riscuote più successo di un haiku.

BORGNA È INVECE IL PALADINO delle parole fragili che aprono alla scoperta, alla luce e alla grazia, che accendono relazioni e sono capaci di recare conforto: «le parole rilkiane, che si aprono e si chiudono come ortensie azzurre, le parole leopardiane, nelle loro risonanze così facilmente ferite dalla nostra indifferenza e dalla nostra noncuranza, dalla nostra fretta e dalla nostra disattenzione, le parole ungarettiane che, come allodole accecate da troppa luce, rinascono dal silenzio e dalla discrezione, dalle luci e dalle penombre della vita». E lo è tanto di più nell’epoca presente in cui il nuovo presidente degli Stati Uniti ha una parola a più alta frequenza d’uso negli insulti che rivolge a destra e a manca prendendo a bersaglio chi non si allinea ai suoi comandi: «debole». Un epiteto connotato da un atteggiamento fascista che punta il dito contro la colpa peggiore attribuita dai tiranni: la fragilità, appunto. Per non parlare del culto della forza di Paesi governati da sultani come Erdogan o da zar come Putin, o dell’abitudine sempre più diffusa in Paesi come l’Ungheria di mandare i ragazzini di 11 anni, invece che in una scuola secondaria di primo grado, in convitti paramilitari dove hanno la sveglia alle 5 del mattino e si mette loro in mano un Kalashnikov per «forgiarli».

È CIOÈ ALL’OPERA una campagna di cancellazione delle emozioni, di messa al bando della gentilezza, di ridicolizzazione di tutto ciò che non sia coeso, impermeabile, roccioso, virile, in un rigurgito di insofferenza per le sfumature, la delicatezza, l’imperfezione, per tutto ciò che è diverso da come deve essere.

Sembra impossibile contrastare lo spirito del tempo ma non è così, può risultare certo più arduo, ma le sfide vanno comunque raccolte. Per esempio, si vedono continuamente pessimi videoclip di pop music che ridicolizzano gli anziani ma recentemente ne è comparso uno, Hear Me Now, di Zeeba, Petrillo e Martini, dove si vede un anziano con la malattia di Alzheimer e suo figlio che, riandando al passato con la memoria, recupera aspetti e manifestazioni della loro vita di un tempo per risintonizzare il vecchio padre malato.

E allora, per non rischiare di dover soffocare o dissimulare i tesori di umanità necessariamente imperfetta, leggiamo Borgna e facciamo pace con le nostre istanze più immateriali, più tenui ma più nobili.