Le cronache danno molto risalto a una lezione di un uomo di chiesa contro la teoria evoluzionista di Charles Darwin nel condizionare le sue scelte universitarie. Ma di quella lezione ci sono invece poche tracce nelle tante interviste e scritti di Luca Cavalli-Sforza, medico di formazione universitaria, specializzazione in statistica e riconosciuto come uno dei più importanti genetisti del Novecento. Cavalli-Sforza è una figura di ricercatore che prima di avanzare un’ipotesi ha già accumulato una mole di dati tesa a dimostrarla. Poi la verifica, sia in laboratorio che sul campo. Sono infatti note le sue permanenze presso alcune popolazioni che possono, a partire dalla loro organizzazione sociale, aiutare a comprendere come vivevano i nostri arcaici antenati. Per questo, ha sempre intrattenuto buoni rapporti sia con gli antropologi che con etnografi, esponenti di due discipline che sono collocati nel continente della «cultura», mentre tra i gate keeper per accedere ai territori della «natura» è spesso inserito proprio Cavalli-Sforza, anche se il suo lavoro di ricerca può essere considerato un ponte gettato per superare la visione dicotomica che ha posto su fronti contrapposti le discipline umaniste e quelle scientifiche.

Cavalli-Sforza è, inoltre, uno scienziato che crede nella capacità della scienza di fornire strumenti analitici per comprendere la realtà. Non è però uno scientista, cioè un ricercatore che assegna alla scienza il potere di definire come debbano funzionare la società, l’economia, la politica. È un illuminista ostile a qualsiasi superstizione e sospettoso con ogni religione, quando quest’ultime pretendono di far discendere dal soprannaturale le norme del vivere in società.

Un buon esercizio del dubbio

Nei suoi scritti, infatti, invita sempre a quel difficile esercizio del dubbio caro alla tradizione di Voltaire, Danton e Rousseau, anche se ritiene «ragionevole» individuare nella spiritualità uno degli elementi qualificanti del vivere in società dell’animale umano. Anche sul rapporto tra scienza e società non ha mai assunto posizioni «radicali». È consapevole che esistono pressioni per indirizzare la scienza in direzioni che possono coincidere con quelle delle imprese economiche, ma ritiene anche in questo caso «ragionevole» supporre che le regole dell’attività scientifica – ipotesi da confermare secondo procedure certe e, in seguito, sviluppare un modello riproducibile – garantiscano l’autonomia dei ricercatori dagli interessi economici. È questa convinzione che ha orientato la sua attività di medico prima, di genetista poi.

Il suo maggiore contributo per la genetica può essere facilmente riassunto così: l’homo sapiens è frutto dell’evoluzione; è un discendente delle scimmie antropomorfe che, una volta comparso sulla terra, si è diffuso su tutto il pianeta. Questo non esclude il fatto che i sapiens abbiano condiviso la terra con altre «famiglie» di umanoidi e che ci possono essere stati «scambi» tra di loro. Da qui l’ipotesi che non esistono «razze», bensì differenziazioni di una specie dovute a molteplici fattori, tanto naturali che «sociali». Per verificare questa ipotesi Cavalli-Sforza, che ha svolta la sua attività tra l’Italia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, ha svolto molto lavoro di laboratorio, chino sui microscopi e coinvolto nell’analisi di Dna recente e dei frammenti di quello «arcaico» recuperato. Poi, zaino in spalle, è andato in giro per il mondo, vivendo mesi con popolazioni, come i pigmei, che hanno uno stile di vita e un’organizzazione sociale che può essere comparata a quella che riguardavano gli antichi antenati dell’homo sapiens.

Il volume che meglio di altri raccoglie la lunga avventura che Cavalli-Sforza ha vissuto e continua a vivere è contenuta nel libro ristampato in forma ampliata da Codice Edizione. Il titolo è Chi siamo, scritto con Francesco Cavalli-Sforza (pp. 425, euro 27). È un saggio bello da leggere e da sfogliare e un antidoto alle tante sciocchezze razziste che inquinano la discussione pubblica. Allo stesso tempo è una delle migliori argomentazioni di una lettura non «ortodossa» della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, teoria che costituisce l’implicito sfondo analitico dove collocare l’opera di Cavalli-Sforza.

Se i sapiens sono da considerare espressione di una evoluzione durata centinaia di migliaia di anni come spiegare le diversità linguistiche, morfologiche degli attuali abitanti umani della Terra? Qui la genetica lascia il passo all’antropologia, alla linguistica, anche se le risposte fanno leva proprio su una visione dinamica dell’evoluzione, dove l’habitat naturale significa clima, presenza animale, alimentazione, relazioni tra specie diverse. Cavalli-Sforza invita a soffermarsi sulla coppia invarianza-differenziazione. Esistono cioè delle invarianti, cioè tratti comuni a tutte le lingue, ma anche differenziazioni storico-sociale che sono intervenuti per garantire la migliore riproduzione della specie. L’animale umano è un animale sociale, che tende sempre all’incontro con l’«altro». Un concetto che Cavalli-Sforza ha racchiuso nel temine «noismo», usato per indicare l’attitudine a privilegiare il noi al singolo. Da questo punto di vista la tesi del genetista italiano va controcorrente.

L’individuo, infatti, non è il centro della società, bensì è il vivere collettivo che è privilegiato, perché solo la dimensione «sociale» garantisce le condizioni ottimali per la riproduzione della specie umana. Tesi dunque lontana anni luce dallo spirito del tempo dominante, dove l’individualismo è divenuta una sorta di religione delle società contemporanee. È in questo crinale che la coppia «natura/cultura» perde potere performativo. La cultura, infatti, è elemento complementare a quelle caratteristiche che vengono spesso relegate nel campo del naturale. La relazione sociale, il linguaggio, la cosiddetta «riflessività» sono tanti tasselli di un puzzle che accoglie anche il Dna, le caratteristiche morfologiche, somatiche, che sono sì differenziate a seconda dell’habitat naturale, ma che rivelano forti elementi comuni.

Cavalli-Sforza non ha mai nascosto il rischio che il «noismo» possa avere derive feroci, come il razzismo, il genocidio, lo sterminio, un selettivo darwinismo sociale che porta a forme di oppressione su componenti della stessa «famiglia umana», ritenuti tuttavia un ostacolo alla riproduzione della specie. È il tema del fitto dialogo a distanza che il genetista intrattiene con Daniela Padoan nel volume Razzismo e noismo (Einaudi, pp. 325, euro 19), testo già recensito nelle pagine di «Alias della domenica» del 9 febbraio da parte di Marco Mazzeo. C’è però un aspetto del fitto dialogo tra la filosofa e il genetista che merita un’attenzione a parte. È la definizione del «noi» che emerge tra le pagine. Noi, sostiene Cavalli-Sforza, è una termine presente che ha un ruolo fondante dell’identità individuale in tutte le lingue. Il «noi» è il termine al quale i singoli si richiamano per qualificare la propria identità individuale. Si è singoli solo perché esiste il «noi». Un’affermazione densa di conseguenze perché, sostiene Padoan, quel «noi» può nascondere l’orrore. L’orrore dello sterminio di massa, della Shoah, di regimi autoritari, dello sfruttamento, dell’oppressione delle donne.

L’unicità dell’io

È un dialogo avvincente quello che si snoda in questo volume. Cavalli-Sforza puntualizza, chiarisce, prova a spiegare perché il «noi» possa essere piegato alla legittimazione di atti e di regime oppressivi. È cioè consapevole dei rischi insiti nel «noismo» che, con tatto e intelligenza, l’intervistatrice mette in evidenza. Come ha notato Mazzeo, l’esperienza più drammatica è la Shoah, ma anche i contemporanei movimenti xenofobi, populisti, nazionalisti hanno nella distinzione tra il noi e gli altri, descritti sempre attraverso caratteristiche «animali», il loro collante naturale. A ragione, tuttavia, i due autori concordano sul fatto che quel «noi» sia un fattore posticcio, inventato, perché stabilisce un confine tra chi ne fa parte e chi ne è fuori, rendendo le differenziazioni presenti nella specie umana un elemento di esclusione che, di volta in volta, cerca legittimazione nella natura o nella cultura.

Daniela Padoan pone però un quesito su una contraddizione insita nel «noismo»: come il singolo può sottrarsi all’imperativo del «noi»? La risposta sta proprio in quell’apparente paradosso cognitivo che postula l’esistenza dell’«io» perché esiste il «noi». Si è singoli e si può affermare la propria unicità solo a partire dall’esistenza del noi. È in questa «dialettica» che può manifestarsi la sottrazione del singolo dall’abbraccio, talvolta soffocante, del noi. Soltanto che è una «dialettica» che può trovare un punto di fuga prendendo congedo dalle «comunità inventate» per legittimare le gerarchie sociali e di potere che il «noi» istituisce per riprodurre la sua formalizzazione politica. Ma per fare questo occorre contemplare che il «noismo» non è una superficie liscia, ma è attraversata da venature, da punti di frattura. Cioè di conflitto, affinché quel «noi» possa essere riscritto e codificato una volta che viene meno alla sua capacità di garantire l’unicità del singolo.