La teorizzazione di un’irriducibile estraneità ed ostilità rispetto ai modi e alle tecniche della comunicazione contemporanea – sempre più mediatizzata – ha caratterizzato l’atteggiamento di buona parte della sinistra italiana a partire almeno dal 1993, anno del fatidico annuncio della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Recuperando una visione che Umberto Eco definirebbe «apocalittica» dei mass media, la sinistra politica ha per lungo tempo attribuito il successo politico di Berlusconi agli effetti di breve e, soprattutto, di lungo periodo della Tv commerciale, giudicata come responsabile di un vero e proprio mutamento antropologico del pubblico (anche se sarebbe più opportuno parlare di «pubblici») e quindi degli elettori in direzione di un loro, per dirla in modo semplice, «istupidimento». Da questo processo manipolatorio sarebbe derivata una falsa coscienza potentissima che spingeva gli elettori a votare per il centro-destra e a misconoscere le ragioni della sinistra.

Questa credenza – in fondo di tipo consolatorio e autoassolutorio rispetto ai propri errori politici e alla propria incapacità di elaborare una visione teorica e politica adeguata alle nuove condizioni della tardo modernità italiana – si è spesso accompagnata alla teorizzazione di una superiorità dell’alta cultura (quella coltivata dai «veri» intellettuali impegnati e militanti) rispetto alla cultura di massa. Su questo giudizio pesava anche l’eredità di Pier Paolo Pasolini e del suo ritenere l’ascesa della società del benessere come responsabile del definitivo tramonto di una precedente, genuina e tradizionale cultura popolare, troppo spesso assunta dal grande poeta e scrittore in modo mitico e contrapposta al nuovo «fascismo dell’omologazione». Un ragionamento così impostato non solo riesumava, in particolare nel corpo dirigente della sinistra italiana, categorie e modi di intendere la comunicazione da primo Novecento (il messaggio è passivamente recepito dai pubblici) spingendolo all’incomprensione totale del legame complesso e sempre più multidimensionale che esiste tra potere, cultura e comunicazione.

Acculturazione delle masse

Certamente, questa vicenda non è solo italiana ma, nella storia della sinistra al livello mondiale, si è ripetuta ciclicamente di fronte all’avvento e poi al consolidamento di quasi ogni nuovo media a larga diffusione apparso nel corso della modernità: i giornali, la radio, il cinema, tutti inizialmente salutati dai progressisti delle varie epoche come vettori di educazione e acculturazione delle classi lavoratrici; per poi essere indicati come responsabili dell’involgarimento delle masse e della loro manipolazione politica, non appena appariva chiaro l’avvenuto sviluppo di un mercato controllato dai grandi capitali, per ciascuno di essi. Anche la rete Internet, a ben vedere, sembra oggi subire lo stesso destino.

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La televisione è invece un medium dalla storia particolare, poiché raramente è stato giudicato, sin dai suoi esordi, come veicolo di progresso sociale, nonostante la sua iniziale diffusione sia stata guidata in Europa (diverso il discorso degli Stati Uniti) da un sistema proprietario pubblico e dai fini spesso esplicitamente pedagogici. A tutto questo ha fatto da parziale controaltare (ma certamente non da antidoto, come mostra appunto la sopra ricordata vicenda italiana) un modo del tutto particolare di intendere e studiare il rapporto tra mass media, cultura e ceti popolari: i cultural studies della Scuola inglese di Birmingham, che ha visto tra i suoi maggiori esponenti Richard Hoggart, Stuart Hall e Raymond Williams.

In breve, questo filone sociologico nato a metà degli anni Sessanta del Novecento, concentrandosi sullo stretto rapporto che sempre esiste tra cultura e potere, ha sviluppato un programma di ricerca (tuttora molto attivo anche se disperso e composito) che ha evidenziato due temi: ogni forma culturale (compresa la «cultura alta») è anche una forma di potere e dunque, che gli intellettuali-educatori finiscono spesso per essere altrettanto prevaricatori della cultura mediatica commerciale, proprio nell’esaltazione di una visione lineare della loro missione «emancipatoria». Il secondo tema, ben più rilevante per le implicazioni politiche, è che tra ceti popolari (e in generale le audience) e i contenuti veicolati dai mass media si instaura un rapporto complesso, fatto di ricezione e resistenza, di omologazione e di ricodificazione originale di messaggi e contenuti. In altre parole, gli studiosi dei cultural studies hanno mostrato che le persone sono tutt’altro che stupide nel loro modo di accostarsi ai media e che sono in grado, spontaneamente, di elaborare sui medesimi messaggi e stili di vita proposti, «sub-culture« e persino «controculture» del tutto diverse rispetto agli esiti attesi da chi pensa e mette in scena i programmi.

Acquisizioni che hanno molto influenzato la Nuova Sinistra britannica persino spingendola, a volte, a privilegiare in modo eccessivo gli aspetti politico-culturali delle lotte sociali e delle nuove soggettività, allontanandola per contro dalle questioni più propriamente economico-materiali.

La pubblicazione in Italia di Il Dottor Calligari a Cambridge. Dramma e classi popolari nel cinema (ombre corte, euro 13), composto da due saggi di Raymond Williams – introdotti da Gino Frezza e seguiti dalla post-fazione di Fabrizio Denunzio, curatore e traduttore dei saggi stessi – rappresenta un ulteriore importante tassello per approfondire, anche nel nostro paese, le posizioni della Scuola di Birmingham.

Un espressionismo obbligato

In Italia, Raymond Williams è una figura forse meno conosciuta di Stuart Hall, nonostante i suoi contributi allo studio del cinema, della televisione e del teatro siano senz’altro tra i più importanti nella mediologia del Novecento e sia stato uno scrittore di grande successo (da ricordare, in particolare il suo romanzo Il popolo delle montagne nere). Docente di Drama a Cambridge dal 1961 al 1983 (anno del suo ritiro) uno degli aspetti che emerge in modo più chiaro dalla sua opera è la capacità di aver saputo precorrere un approccio «integrato» allo studio dei diversi tipi di media: in una stagione culturale nella quale alcuni generi e media erano ritenuti più nobili di altri, Williams ha mostrato le strette interdipendenze che si instauravano tra ciascuno di loro.

Mettendo in luce la fondamentale questione del realismo o naturalismo, ovvero del rapporto tra cosa rappresentata nella sua complessità sociale e diverse forme della rappresentazione. Tutto questo si evince già dal titolo del libro: esso fa infatti riferimento al film muto di Robert Wiene del 1920, «Il gabinetto del Dottor Caligari», considerato uno dei film più rappresentativi del movimento espressionista e la cui visione era praticamente obbligatoria per qualunque intellettuale di sinistra dell’epoca.

Il dottor Caligari a Cambridge è dunque un riferimento sia al difficile ingresso di certe forme artistiche meno tradizionali nell’Accademia sia alla complessità del rapporto tra un uso dei media e pubblici. Il primo saggio di Williams si intitola «Film e tradizione drammatica» e fu pubblicato nel 1954, quando il tema portante era appunto quello del rapporto tra cinema e teatro.

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In questo scritto, il letterato e sociologo gallese smonta la definizione essenzialista del genere drammatico, allora visto come caratteristico del teatro: alla base anche del cinema moderno, il dramma non è definibile in funzione di una qualche caratteristica precisa né è l’espressione, nella modernità, della semplice ascesa della borghesia (come voleva invece il filosofo ungherese marxista György Lukács). Il dramma è essenzialmente performance e imitazione, messa in scena attraverso l’utilizzo integrato di una modalità di forme espressive, utilizzate per coinvolgere un pubblico e rappresentare qualcosa. Il dramma è azione espressiva totale e null’altro. Così, se il teatro stenta ad andare, anche nella scrittura, oltre i limiti del naturalismo, il cinema vi riesce pienamente e, così facendo, dà vita ad una performance davvero totale: il cinema appare maggiormente in grado di restituire la struttura del sentire comune della nostra epoca. Il secondo saggio è invece la trascrizione di una conferenza tenuta nel 1985 da Williams a chiusura di un festival e si intitola «Cinema e socialismo». In questo saggio egli si chiede se il cinema possa farsi attore di una profonda trasformazione sociale. Film e socialismo, per Williams, appaiono precursori e attuatori di «un nuovo tipo di mondo, quello moderno: basato sulla scienza e la tecnologia; fondamentalmente aperto e mobile; quindi, non solo un medium popolare, ma anche dinamico e, forse addirittura, rivoluzionario». Strettamente connessi con l’urbanizzazione e l’ascesa delle classi lavoratrici.

Tra produzione e consumo

Nella sua evoluzione, sino al mondo contemporaneo, il cinema rivela così la sua profonda ambivalenza piuttosto che la sua capacità di produrre effetti a senso unico: da una parte esso è un grande medium popolare; dall’altro, poiché cultura popolare e cambiamento in senso progressista non si accompagnano necessariamente tra loro, esso riproduce simmetricamente le strutture sociali e culturali che caratterizzano il più vasto contesto: in altre parole, all’internazionalizzazione dei capitali corrisponde sia l’internazionalizzazione del cinema sia il suo divenire un mercato fiorente e una fonte di profitto. Luogo del conflitto (si potrebbe dire) piuttosto che della ricomposizione sociale, dunque.
In conclusione, questi due saggi di Williams rafforzano ulteriormente il messaggio che era proprio dei cultural studies e che c’è oggi tanto prezioso sia in ambito politico che scientifico: quello di non dare mai per scontata la separazione tra i diversi ambiti culturali e i suoi produttori, tra media e pubblici dei media, al contrario, cercando di cogliere la complessità e spesso la contraddittorietà di questi rapporti, leggendoli nella realtà del loro svolgersi. Pena l’incomprensione e l’isolamento da quel mondo contemporaneo e dai suoi abitanti, così profondamente permeati, al contrario, da una molteplicità di flussi mediatici e comunicativi.