Uno spettro si aggira per l’industria discografica. Si chiama, guarda caso, Spectre, ed è il nuovo album dei Laibach, a otto anni dal precedente, Volk. In inquietante e profetica sincronia con i fatti d’Ucraina, proprio mentre «L’Europa cade a pezzi», come dicono nel brano Eurovision.

Sono trent’anni che il collettivo sloveno, bandito nell’ex Jugoslavia di Tito, ci redarguisce com’è uso di solito con i cuccioli che non la fanno nei posti deputati: strofinando il muso nel grande massacro della seconda guerra mondiale e delle guerre civili, un periodo in cui tutta l’Europa era un campo di battaglia prima, e un territorio strangolato da trattati e confini in cui si giocava una partita di superpotenze straniere, poi.

Tutta la loro carriera, spesa sul filo della provocazione nel segno delle avanguardie del Novecento, insiste su un monito ben preciso: annegare i traumi dello scontro militare e ideologico e dello sterminio nel benessere delle infinite merci prodotte e consumate – sembra dirci la loro sterminata discografia – non basta e, soprattutto, non funziona. C’è sempre qualcosa che a un certo punto riporta indietro l’orologio della storia. Basti guardare, appunto, alla Crimea (Laibach era il nome tedesco della capitale della Slovenia, Lubiana).

Capitanati dall’imponente Milan Fras, che ha grossomodo l’aspetto che avrebbe Vlad l’Impalatore se si fosse arruolato negli Afrika Korps di Rommel, antesignani dei brutali Rammstein, i Laibach sono non soltanto il miglior collettivo/gruppo post punk dell’Europa post-sovietica, ma un patrimonio culturale, un arsenale critico che, orgogliosamente, resta aggrappato alle avanguardie artistiche ed intellettuali del XX Secolo: il collettivo, l’uso di manifesti, la chiamata alla mobilitazione, l’idea di partito. Oltre, naturalmente, a quelle di nazione e soprattutto di nazionalismo, concetti con i quali giocano, in maniera volutamente inquietante, da sempre.

Chi li ha visti dal vivo sa cosa intendo. Il loro è uno stentoreo fuck off postmoderno al postmodernismo stesso e alla società dello spettacolo attraverso un uso incrociato, provocatorio, svergognato e osceno dell’iconografia nazista e totalitaria in generale. Il martellamento marziale delle percussioni, la presenza della band sulla scena, la voce speleologica di Fras ti sbatte in faccia l’ebbrezza totalitaria, l’individuo sciolto nell’acido della collettività, la tragica parabola dell’utopia rovesciatasi nel suo contrario.

Per loro, la musica non è mai stato un fine in sé, piuttosto un mezzo. È abbastanza evidente quando si guardi alla qualità musicale del loro repertorio. Nel recensire i loro album, si tende a stigmatizzarne la scarsa innovazione stilistica. Vero, ma non è questo il punto, né quello lo scopo. Che invece consiste nel manipolare, secondo tecniche di détournement ormai ben consolidate, generi e stilemi della tradizione musicale occidentale alta e bassa, innescando cortocircuiti di senso politicamente osceni, tali da provocare un violento conflitto nello spettatore. Praticando un’archeologia del fascismo residuale delle democrazie di mercato, riescono egregiamente a épater le liberal. Quando te li trovi davanti in concerto, sotto quel profluvio d’immagini di guerra sullo sfondo – rigorosamente in pellicola e in b/n – vestiti in uniforme (sull’attrazione del rock per l’iconografia fascista ha scritto cose illuminanti Susan Sontag) mentre intonano slogan martellanti, si prova un senso di colpevole catarsi.

E poi, i video: impossibile non ricordare quello di Life is Life, geniale dirottamento pop (è il rifacimento del noto pezzo anni Ottanta del duo pop austriaco Opus) in un’ambientazione che fa il verso ai film di montagna della prima Leni Riefenstahl. Dove, a metà strada tra pornografia d’immaginario nazi e film come Portiere di notte di Liliana Cavani, il più reificato pop commerciale si mescola al post-wagnerismo di compositori di colonne sonore hollywoodiane alla John Williams, con esiti irresistibili. Non è dunque un caso che i loro pezzi migliori siano quelli che stravolgono i classici altrui. Con i Laibach, l’arte della cover è assurta a nuove altezze, confondendo del tutto i codici della fruizione. Basta ascoltare i loro interventi su (o meglio, deliberato quanto esilarante massacro di) pietre miliari del rock come Sympathy for the devil degli Stones, del più atroce europop, o del rock da stadio per demistificare, anche solo per un attimo, lo splendido inganno ordito dalla cultura pop verso se stessa.

Spectre, che di cover non ne ha, dal punto di vista musicale è insolitamente gradevole, proprio perché un po’ pedestre. Le sonorità più brutalmente industrial dei primi anni Duemila sono evaporate, per far spazio a un assai più soft (e blando) synthpop fine anni ‘80. E i testi sono a sorpresa legati al presente storico.

La loro sembra quasi una critica pop allo stato di eccezione del giurista tedesco Carl Schmitt, un concetto secondo il quale gli stati democratici legittimano l’assunzione periodica d’iniziative unilaterali tipiche del totalitarismo fascista in nome di un concetto eticamente vago e volutamente equivoco come «bene comune» (secondo Giorgio Agamben.) E non è che una delle chiavi di lettura dello sfaccettato prisma creativo del gruppo sloveno. Per citare loro stessi: «la politica è la forma d’arte più alta e comprensiva, e noi che creiamo musica contemporanea ci consideriamo uomini politici».