Non c’è tregua per Beirut. Ancora una volta il porto. Un altro incendio alle 13:30 di ieri ha messo in allarme la città. Per cinque ore vigili del fuoco e soldati dell’esercito sono stati impegnati nel domare le fiamme divampate in un deposito di olii alimentari e copertoni nel duty free, appena fuori dalla zona rossa, quella della doppia esplosione che il 4 agosto è stata causa di circa 200 morti, 7mila feriti e della devastazione di Beirut. L’esercito ha fatto subito evacuare le aree circostanti il porto, che aveva parzialmente ripreso le operazioni da poche settimane.

La torre di fumo nerissimo ha messo in allarme la città intera, già fortemente traumatizzata dai recenti fatti. Al momento non si contano vittime né feriti, solo qualche operaio intossicato dai fumi e soccorso dalla croce rossa libanese, mentre quella internazionale ha fatto sapere che le fiamme hanno danneggiato un deposito di aiuti alimentari.

E QUESTO È GIÀ IL SECONDO incendio al porto in questa settimana. Un rogo di piccole dimensioni era stato estinto martedì dai vigili del fuoco. La notizia aveva però succeduto quella del ritrovamento di altre 4,35 tonnellate di nitrato di ammonio pochi giorni prima, di cui era pieno il capannone – 2750 tonnellate – oggetto dell’esplosione di agosto. L’esercito aveva fatto sapere che il materiale era stato subito eliminato.

Ieri sarebbero stati dei lavori di saldatura ad aver fatto incendiare un bidone di olio, da cui poi il resto. Versione confermata da vari testimoni, dal presidente della commissione parlamentare per i lavori pubblici Najem e dal ministro per i lavori pubblici Najjar. La ministra della giustizia Najm ha chiesto al procuratore generale Oueidate di aprire subito un’inchiesta e la polizia militare ha fatto altrettanto. Neanche un mese fa il giudice militare Sawan aveva iniziato le indagini per l’esplosione del 4 agosto. Una riunione straordinaria del consiglio superiore della difesa è stata convocata alle 19 di ieri al palazzo presidenziale.

L’ennesimo evento nefasto avviene in un clima politico non semplice. A pochi giorni dalla nomina dei ministri del nuovo governo guidato dal neo-premier Mustafa Adib che dovrebbe avviare le riforme che consentirebbero di accedere ai 253 milioni di euro stanziati dalla comunità internazionale per l’emergenza, è arrivata martedì la prima vera e propria mossa politica americana in Libano di questa nuova fase e con essa un segnale fortissimo.

GLI EX-MINISTRI Ali Hasan Khalil del movimento sciita Amal e Yussef Fenianos del movimento cristiano Marada sono stati accusati dal governo americano di aver deviato fondi quando erano in carica per favorire i loro alleati sciiti e si sono visti congelare i conti esteri.

È la prima volta che membri di due partiti alleati di Hezbollah – e non esponenti – vengono sanzionati da parte degli Stati uniti. L’assistente segretario di Stato per gli Affari del Medio Oriente Shenker ha dichiarato che «verrà chiesto conto agli alleati di Hezbollah» e ha chiarito che quello di martedì non sarà un caso isolato.

Si tratta di leggere questi atti alla luce di un nuovo piano di assetto del Medio Oriente che vede Israele – ieri l’esercito libanese ha abbattuto un altro drone israeliano sulla Linea Blu di confine – sempre più protagonista e l’asse Iran-Bashar-Hezbollah sempre più isolato.

GLI USA FANNO ORA PRESSIONI sulla formazione del nuovo governo attesa per questo fine settimana, ma le sanzioni ne ritardano l’annuncio, mentre crisi economica, sanitaria – ieri 560 casi di covid e 7 morti – e sociale non consentono ai libanesi il lusso di poter aspettare.