Composta in oltre venti anni, è una carrellata di scritti sulla Rete, il suo rapporto con gli altri media, il suo ruolo nella formazione dell’opinione pubblica. Esempio di una storia del presente nel suo divenire, Rosso Digitale (manifestolibri, pp. 140, euro 16) di Vincenzo Vita, firma nota ai lettori del manifesto per suoi contributi sull’evoluzione dei media, è anche un’appassionata cronaca della formazione di un populismo mediatico che vede nelle tecnologie digitali un potente dispositivo performativo della vita sociale.

L’AUTORE È INIZIALMENTE convinto che la tv sia il media principe nella formazione dell’opinione pubblica e che la Rete non possa che attestarsi su una funzione ancillare degli old media. Un punto di vista maturato nell’analisi di quel laboratorio sociale e ideologico che sono state le tv commerciali e che ha avuto, nel sorriso beffardo di Silvio Berlusconi, la sua silhouette pacioccona.
Non è dato sapere se Fininvest prima e Mediaset dopo, sarebbero ugualmente diventati i piloni portanti di un sistema oligopolistico (sia per la tv che per la raccolta pubblicitaria) senza la complicità di una parte del sistema politico. Quello che è certo è che Berlusconi utilizzi il piccolo schermo come megafono di una patinata e seducente weltanshauung neoliberista. Vita non limita la sua analisi alla comprensione del berlusconismo. Mette infatti a fuoco l’incapacità della sua parte politica – la sinistra – di fornire risposte adeguate a una situazione in veloce mutamento. Lo sguardo nostalgico verso il passato o la subalternità alle imprese della comunicazione sono le derive della sinistra politica.
Berlusconi dunque come apripista del populismo mediatico, mentre Renzi, Salvini e il Movimento5stelle ne sono gli eredi e i continuatori, all’interno di un’alternanza tra continuità e discontinuità che ha, sullo sfondo, la corrosione della democrazia rappresentativa da parte del capitalismo globale.
La Rete è diventata nel tempo una «macchina universale», ha la capacità di sussumere gli old media. Non ne provoca la morte, quindi. Semmai ne modifica modi di produzione e stile comunicativo. Significativo è da questo punto di vista come i populismi postmoderni siano capaci di usare e piegare i media a progetti politici che segnano, questi sì, una radicale discontinuità con il Novecento liberale o socialdemocratico.
Con buona approssimazione il sociologo e economista politico Colin Crouch scrive di quel regime che è la postdemocrazia, la cui instaurazione avviene non sempre linearmente. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, Renzi vede naufragare la sua idea di riforma dello stato sociale, mentre Salvini fa leva sull’uso congiunto di old media e new media, cambiando camaleonticamente lo stile comunicativo con lo scopo dichiarato di ripristinare l’autorità dello stato nazione.

DISCORSO A PARTE meritano i «grillini» e il loro simulacro di democrazia diretta incardinato su piattaforme digitali gestite secondo una logica proprietaria che nega tanto la sbandierata trasparenza quanto la possibilità di controllo del «popolo» sul loro funzionamento.
Vincenzo Vita registra la grande trasformazione e propone una lettura del world wide web come macchina tecnologica che radicalizza l’erosione della democrazia rappresentativa, la scomparsa dei cosiddetti corpi intermedi della società. Mette inoltre in evidenza la formazione di oligopoli globali, che contribuiscono a colonizzare la comunicazione «spicciola» attraverso i social network e a plasmare a propria immagine l’opinione pubblica. Non demonizza la rete; semmai sottolinea la dimensione politica di un settore che, al tempo stesso, forma l’opinione pubblica, facendo affari e profitti con sentimenti, scambi di informazioni tra uomini e donne. Da qui, la rilevanza delle leggi sulla proprietà intellettuale e le norme che stanno ridefinendo le regole della libera concorrenza e anche la possibilità, da parte dei network televisivi, di dare vita a media globali. È questo il presente che l’autore invita a guardare, esortando a riprendere in mano e rileggere quella critica dell’economia politica che ha nell’opera di Karl Marx il suo momento più alto.