Affrontare un’esigenza che si fa sempre più urgente, il ripensamento delle categorie critiche di analisi sociale e politica, a partire dal loro tratto più sintomatico, quello della loro scomparsa. È questo l’intento dell’ultimo saggio di Marco Maurizi, Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene (JacaBook, pp. 277, euro 30), il cui titolo (che richiama l’ultimo verso di un sonetto di Franco Fortini dedicato ad Andrea Zanzotto) indica appunto la volontà di imbastire per via negativa un possibile discorso di sinistra, partendo da quello che appare come il sintomo della sua sparizione: il populismo. Che non è, e probabilmente non è mai stato, una categoria politica quanto, piuttosto, «un vero e proprio marcatore di un blocco nella capacità di esercizio del pensiero critico».

UNO SPAURACCHIO costruito ad hoc, con cui da un lato si segnala il rischio autoritario e antidemocratico derivante da un generale imbarbarimento del dibattito politico, sempre più lontano dai discorsi dell’establishment e sempre più vicino alla pancia, agli istinti, alle pulsioni del popolo; e con cui tuttavia si pone in atto un dispositivo di occultamento di ben altre derive autoritarie: quelle delle sinistre di governo che, non riuscendo più a solidarizzare con il popolo e le sue esigenze, lo demonizzano, screditandone le richieste e le istanze di cambiamento sociale. E così, quella che un tempo era vista come un’alternativa inconciliabile fra socialismo e barbarie diventa oggi un mix indistinto di entrambi, la «somma di sommi d’irrealtà» (per citare stavolta la risposta di Zanzotto a Fortini), un rifiuto da scaricare nel contenitore indifferenziato del populismo.

QUELL’ALTERNATIVA però, è ancora reale, ancora presente, ancora leggibile nella sua forma (appunto) sintomatica, quella di un conflitto tuttora in atto anche se privo di linguaggio, incapace perciò di esprimersi in maniera adeguata e perennemente soggetto al rischio di manipolazioni ideologiche.

Da qui l’esigenza di ripensare (a cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e a mezzo secolo dal Sessantotto) l’eredità teorica del socialismo, ricomponendo il «particolarismo astratto» delle varie esperienze di antagonismo con cui si cerca di criticare l’esistente. «Dunque non è un bene che si cerchi di criticare il capitalismo da più punti di vista?». Certo, l’idea di una lotta unilaterale si presta troppo facilmente ad un monopolio burocratico-dottrinario, così com’è avvenuto nello spirito avanguardista dell’esperienza leniniana e nella sua deformazione mostruosa e fallimentare dello stalinismo.

La critica da più fronti al capitale è senza dubbio positiva, ma a patto che sia animata da una reale ed autentica «convergenza delle lotte», che non ricada nella palude dell’«intersezionalismo» e dell’autoreferenzialità ma che sia in grado di produrre una «sintesi del nuovo linguaggio contestatario», che sia capace di superare la natura privata, soggettiva e spesso personalistica dei singoli antagonismi. Una lotta autentica dovrebbe partire dal presupposto che il socialismo è un’asse intorno a cui ruotano le singole pratiche di emancipazione, e che soltanto all’interno di un generale ripensamento delle relazioni produttive, della dialettica interna al processo del capitale (un processo althusserianamente «senza soggetto»), è possibile ricollocare criticamente le soggettività oppresse. Solo ponendo al centro la questione fondamentale della lotta di classe nel rapporto fra capitale e lavoro è possibile uscire dallo schema binario e polarizzato («maschio/femmina, umano/non-umano») con cui la classe è stata finora ripensata e decostruita, per giungere finalmente alla sua abolizione.