Joe Sacco è senza dubbio uno dei nomi di punta del graphic journalism, genere che proprio grazie al successo planetario del suo Palestina. Una nazione occupata (1993-95), vincitore dell’American Book Award del 1996, ha avuto un input decisivo e una vera e propria «legittimazione». Oltre a questo capolavoro, reportage disegnato sulla vita dei campi profughi palestinesi nell’inverno 1991-92, al giornalista-cartoonist, nato a Malta, cresciuto in Australia e attualmente residente in Oregon, si devono altri lavori notevoli, quali Gaza 1956. Note ai margini della storia (2009), Goradze area protetta (2006) e La grande guerra (2014), racconto disegnato del primo giorno della terribile Battaglia della Somme (1 luglio 1916), su un’unica, lunghissima tavola panoramica di 7 metri: un vero e proprio piano sequenza a fumetti.

NEL SUO ULTIMO LIBRO, Tributo alla terra (Rizzoli Lizard, traduzione di Boris Battaglia e Pasquale La Forgia, pp. 272, euro 25), Sacco compie un viaggio, come d’abitudine tra passato e presente, nelle regioni boreali e artiche del Canada. Terre di boschi e di ghiaccio, dove la temperatura d’inverno può raggiungere i quaranta gradi sotto zero, tanto vaste quanto difficili da raggiungere. Qui vive fin dalla notte dei tempi, la popolazione nomade dei Dene, gli aborigeni canadesi. «Dene significa “il popolo”, e nel Canada del Nord, il termine comprende tutti i nuclei famigliari delle First Nations, la cui cultura è radicata nel paese».

Generazione dopo generazione, questa gente si è sempre considerata figlia della terra: «la terra si prega e si paga», le si deve sempre versare un tributo. Un credo inconciliabile con le esigenze politiche ed economiche del mondo esterno. Il governo canadese, disattendendo o non applicando i trattati, ha sistematicamente requisito e occupato le loro terre. Le attività estrattive hanno trasformato questi territori nell’ultima frontiera del capitalismo industriale, causando danni irreversibili all’ambiente e ampliando i problemi sociali, con la diffusione endemica di fenomeni come l’alcolismo, la prostituzione e la violenza domestica.

Sacco racconta come il governo canadese ha portato avanti un processo di sradicamento e distruzione identitaria dei nativi, attraverso il sistema delle Residential Schools. In questi convitti religiosi, cattolici o protestanti, in realtà dei veri e propri piccoli lager, attivi per oltre centocinquanta anni fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, furono portati in modo coattivo dalle autorità, bambini e ragazzi, strappati alle loro famiglie.

Le vicende delle Residential Schools sono state peraltro segnate da violenze, abusi sessuali e morti. Fatti su cui ha indagato la Truth and Reconciliation Commission, istituita nel 2008 sul modello di quella del Sudafrica post Apartheid. «Circa 150mila bambini indigeni frequentarono i collegi canadesi. Più di 8000 (il quattro per cento) morirono per malattia, negligenza, abusi o altra cause dovute alla carenza del sistema. Ma i corpi spezzati e traumatizzati dei bambini erano parte di un piano più grande»: un «genocidio culturale», volto a porre fine all’esistenza dei popoli aborigeni come entità legali, sociali, culturali e religiose e il loro, per così dire, assorbimento (risorse comprese ovviamente) nelle strutture dello stato canadese.

Sacco, come d’abitudine fornisce sempre al lettore riferimenti storici, geografici e culturali precisi e delinea minuziosamente la cornice all’interno della quale muove la sua narrazione. Le tavole seguono l’andamento del racconto: quando a dominare sono l’azione e il caos, ecco scomparire la divisione in vignette, presente laddove la narrazione è lineare, articolata e ricca di dettagli. Analogamente il disegno di Sacco nella raffigurazione dei volti vira verso un marcato espressionismo fortemente chiaroscurato, che riprende la lezione di Robert Crumb – grandi bocche, grandi sorrisi e grandi occhi – con inquadrature spesso distorte, mentre nella descrizione dei luoghi si caratterizza per un minuzioso realismo.

COME MICHAEL MOORE nei suoi film – ma decisamente meno ingombrante e saccente – il Sacco personaggio si presenta come un reporter, a volte goffo e confuso, spesso dubbioso («Che differenza c’è tra me e una compagnia petrolifera? Siamo qui tutt’e due per portare via qualcosa»), molto attento nell’ascoltare i testimoni intervistati, da cui a volte si lascia mettere in discussione («Non è roba da fumetti. Non è uno scherzo», gli viene detto a un certo punto da un uomo). Del resto, la vicenda dei Dene, secondo Sacco, riguarda tutto il mondo occidentale, a partire dall’emergenza climatica. Alla fine del reportage, eccolo percorrere le gallerie di una miniera, ridotta a discarica di triossido di arsenico, sottoprodotto, quanto mai letale, della separazione dell’oro dalla roccia. A centinaia di metri sottoterra, Sacco, che nutre comunque una grande speranza nelle nuove generazioni, capaci di fondere la cultura occidentale con le tradizioni dei progenitori, pone ai suoi lettori questo quesito: «La mia domanda più grande riguarda la mia razza, riguarda noi. Che visione del mondo ha un popolo che non recita né ringraziamenti né preghiere, che prende quel che vuole dalla terra… e la ripaga con l’arsenico?»