Per recarsi al lavoro in questura, il commissario Francesco Campani prende ogni mattina il treno alla volta di Macallè, capitale della provincia meridionale della Colonia Eritrea, e quasi ogni giorno, al suo arrivo, si imbatte nell’ispettore Araya Girmay, tra i pochi eritrei ad avere un grado superiore a quello di agente e, soprattutto, «un ottimo poliziotto».

SARANNO LORO, che formano una coppia affiatata di detective, ad indagare sulla morte violenta di una donna, il cui scheletro è stato rinvenuto da alcuni studiosi della Società antropologia italiana, impegnati in uno scavo nella zona, con il cranio trafitto da una calibro .38.

Siamo nel 1956, l’Italia non è stata sconfitta ad Adua, è rimasta neutrale nella Grande guerra, Giacomo Matteotti è stato primo ministro per molti anni mentre Benito Mussolini è solo un vecchio e patetico ministro del governo Pella-Fanfani.

QUESTO LO SCENARIO descritto da Luca Ongaro nel suo Un’altra storia (Sem, pp. 234, euro 18), romanzo che inaugura le indagini del commissario Campani e che si va ad aggiungere, ma a partire da un’inedita chiave ucronica, ai polizieschi coloniali proposti, tra gli altri, da Carlo Lucarelli con le indagini condotte del capitano Colaprico e del carabiniere eritreo Ogbà.

È però proprio nella costruzione di «un’altra realtà possibile» che l’intreccio tra il poliziesco e la dimensione storica proposto da Ongaro risulta non solo innovativo ma anche estremamente stimolante. Per quanto paradossale possa apparire, la realtà coloniale è infatti osservata a partire dal presente, con un risultato spiazzante che non cessa di interrogare il lettore.

Come quando, dopo anni di politiche «progressiste», la svolta conservatrice seguita dalla politica italiana, sembra minacciare la società eritrea. Ritiratosi dalla scena Matteotti, i socialisti sono pronti a fare scelte discriminatorie nei confronti della popolazione locale. Commentando i titoli del Corriere eritreo che annuncia l’intenzione di Roma di dividere nelle scuole i bianchi dai neri, lo stesso Campani osserva: «Delle colonie i politici non conoscono nulla. Si ritrovano gli eritrei e i somali e i libici per le strade di Roma e Milano e cominciano ad avere paura anche della loro stessa ombra. Invece quelli magari parlano italiano meglio di loro e capace che hanno anche studiato di più».