Ha avuto vita breve la polemica scaturita da un articolo apparso proprio in occasione del Dantedì sulle pagine del Frankfurter Rundschau nel quale, più che contestare l’importanza del poeta fiorentino, come pareva da quanto rimbalzato sui quotidiani italiani, si cercava (in modo non troppo felice e con qualche svista) di inquadrare Dante nel suo tempo, senza farne un precursore di modernità e italianità.

PUR RINGRAZIANDO l’autore, c’è da dire che la dantistica quest’opera di contestualizzazione l’ha compiuta da tempo attraverso lavori che magari non sempre scalfiscono la retorica patriottarda dal sapore ottocentesco che ancora a volte impazza intorno a Dante, ma che sono accessibili a tutti. Fra i grandi dantisti che è proprio il caso di citare in tal senso non può mancare Marco Santagata, purtroppo scomparso alla fine dello scorso anno, il quale contestava il «Dante padre della patria» sottolineando correttamente come fra Duecento e Trecento l’Italia geografica fosse in realtà piena di piccole formazioni politiche che si facevano la guerra tra loro e che il poeta aveva in mente piuttosto l’Impero, ossia un’istituzione sovranazionale che doveva garantire la pace, la prosperità e la sicurezza di tutti i cristiani così come, almeno idealmente, era stato nei secoli precedenti.

Di Marco Santagata è uscito postumo un bel libro che tuttavia non si rivolge al Dante «politico», ma alle figure femminili che ne affollano le opere: Le donne di Dante (il Mulino, pp. 412, euro 38). Il volume, ricchissimo di immagini, è per questo un percorso condotto fra testo letterario e arti visive, mostrando attraverso la galleria di opere scelte in che modo personaggi e momenti degli scritti di Dante hanno esercitato un fascino fino a tempi recenti, come mostrano pittori romantici e preraffaelliti, o i molti esempi di disegno popolare che vengono inclusi.

LE DONNE DI DANTE sono raggruppate in tre affollate categorie: le donne di famiglia e dintorni, quelle amate, e le «altre». Nella prima sezione ricadono la madre Bella, la moglie Gemma, la figlia Antonia; si tratta della parte del libro più orientata alla biografia, e per chi non fosse pratico della stessa un’accurata cronologia conclusiva può essere d’aiuto. Ci sono anche le donne della famiglia Donati, che con Corso avevano guidato la fazione dei Neri, nemici di Dante, ma come avveniva in queste guerre cittadine anche a lui prossima, come si vede dal personaggio di Piccarda, evocata in modo commovente nelle pagine della Commedia. «Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi», le fa dire Dante, rievocando la sua volontà di farsi monaca e il rapimento orchestrato dal fratello Corso che ne voleva fare, com’era comune al tempo, un elemento di scambio politico, dandola in sposa a Rossellino della Tosa, suo compagno di Parte, per rafforzarne l’alleanza.

La seconda sezione si apre con le «donne schermo», a partire ovviamente da Beatrice, sulla storicità della quale com’è noto la critica si è spesa a lungo. Prima di lei vi erano state altre «donne schermo», dove con l’espressione si intende in che modo siano funzionali a ciò che il poeta vuole significare: scrive Santagata che «al di là della giustificazione che ne dà Dante, questi amori simulati sembrano proprio avere lo scopo di introdurre nel racconto elementi di vissuto, rifunzionalizzandoli alle esigenze della narrazione».

IL DISCORSO non si esaurisce tuttavia solo all’interno del testo, poiché la raffigurazione di queste donne finisce per rispecchiare la quotidianità dei rapporti tra i sessi nella Firenze del tempo. Alcuni fra i personaggi più noti della Commedia compaiono nella terza sezione intitolata «dame, gentildonne e feudatarie»: fra queste non può mancare Francesca da Rimini, protagonista con Paolo dell’episodio forse più celebre della Commedia, al punto che Santagata ricorda che «prima ancora dell’immortalità, Dante ha regalato loro la notorietà. La vicenda di amore e morte di cui sono protagonisti, infatti, era passata inosservata agli occhi della società dell’epoca. Nessuna cronaca, neppure locale, la registra; nessun atto ne conserva traccia; i commentatori antichi nulla sanno più di quanto dice Dante. Né lui doveva essere molto informato di come si fossero svolti i fatti».

Una rappresentazione morale più che cronistica: se la posterità ha registrato l’episodio come emblema del romanticismo, Dante voleva invece significare la crisi morale della nobiltà che si lascia andare agli istinti più bassi. Anche da queste pagine emerge insomma il Dante rivolto al rimpianto del tempo passato e alla critica della condizione del suo tempo: un innovatore suo malgrado.