Tenere in un solo volume «tutto Dante», la sua vita, le umbratili notizie familiari, le esperienze affettive e politiche, sullo sfondo di un’Italia squassata da alleanze volubili e camaleontiche, e naturalmente l’itinerario completo delle sue opere, è l’ambizione di molti italianisti: al culmine di una carriera pressoché interamente dedicata agli studi danteschi, giunge oggi l’opus magnus di John Took, Dante. Amore, essere, intelletto (traduzione di David Scaffei, prefazione di Piero Boitani, Donzelli, pp. 559, euro 36,00). Per il dantista britannico, professore emerito allo University College di Londra, la cronistoria della Firenze due-trecentesca e il profilo delle opere si intrecciano vicendevolmente e si arricchiscono di una complessa argomentazione filosofica sul triplice fronte dell’estetica, della teologia e della politica.

LA PARTE PRIMA del volume ricostruisce la storia fiorentina tardomedievale, allineando cronologicamente gli episodi che Dante dissemina nelle sue opere, a partire dal leggendario sgarro di Buondelmonte nei confronti degli Amadei, con i quali stava per imparentarsi, e dalla loro vendetta la mattina di Pasqua del 1216 (ma Took data al 1215); di qui Dante fa scaturire la divisione fra guelfi e ghibellini, accennandovi nella bolgia dei seminatori di discordie (Inf. XXVIII, 103-111) e poi in un canto di Cacciaguida (Paradiso XVI, 136-147).

L’autore inglese è abile a inserire Dante in quel panorama, come uomo politico che nelle preoccupazioni cerca l’«espressione della propria specifica umanità» e a tal fine si impegna tanto nell’azione quanto nella meditazione dei suoi modelli filosofici e letterari. Ne è documento primario la tarda canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, in cui «l’altalenante conflitto tra atteggiamenti di sfida e di disperazione, di risoluzione e pentimento» è lo stato d’animo di un uomo alle prese con l’esilio, solo in parte compensato dalla protezione di Cangrande della Scala a Verona (1312 – 1318) e di Guido Novello a Ravenna (1319 – 1321).

Non si tratta, per Took, solo di ricostruire la psicologia di un uomo colpito dall’ingiustizia, ma di riconoscere nella sua opera la ricerca di un senso individuale dentro un piano provvidenziale, che prevede prima un «confronto con se stessi», poi una «riconfigurazione di sé», infine la «capacità di trascendere se stessi»: una storia intima in tre fasi che dalla Vita nova prefigura la tripartizione di Inferno, Purgatorio e Paradiso.

Questo paradigma è oggetto della parte seconda, in cui un particolare rilievo è attribuito alla «gentile donna giovane e bella molto» (Vita nova, XXXV) che osserva il poeta dalla finestra e si commuove per il suo lutto: qui Took vede già un tratto purgatoriale, quello del dolore come verifica degli insegnamenti appresi, sperimentazione «della loro adeguatezza a un atto significativo di interpretazione dell’io». A questo grado Dante perviene dopo aver assimilato tanto lo sforzo di Giraut de Bornelh «a realizzare uno stile a tutti accessibile», quanto il suo opposto, quello di Arnaut Daniel «a sviluppare ogni sorta di raffinatezza metrica ed espressiva».

VERRÀ, SUBITO DOPO, la fascinazione per i maestri della tradizione lirica siciliana e per i loro mediatori toscani e stilnovisti, Bonagiunta, Guinizzelli e Cavalcanti su tutti: le rispettive liriche Voi, ch’avete mutata la mainera, Al cor gentil rempaira sempre amore e Donna me prega costituiscono i vertici di un triangolo di teoria della letteratura entro il quale Dante, negli anni Novanta del Duecento, sta cercando di posizionarsi in maniera originale e conclusiva. Sono gli anni in cui il Sommo Poeta muove i suoi passi a partire dal magistero dei due Guidi, orientato all’«espressione del tormento» e all’«estenuazione dello spirito» amante, cui è da ricondurre quel presentimento di morte che aleggia nella Vita nova, nonché nelle canzoni Lo doloroso amor che mi conduce e È m’incresce di me sì duramente, per poi virare verso una riflessione «sull’amore come coefficiente» di un rinnovamento spirituale, condotto a ciò anche dall’esperienza del Fiore, da Took attribuito senz’altro a Dante.

Se è vero che Il Fiore è l’anello di congiunzione fra la Vita nova e la Commedia, non si può dire che il passaggio sia lineare, poiché prima Dante, sulla scorta del De consolatione philosophiae di Severino Boezio, deve attendere all’allegorizzazione filosofica della «gentile donna» nel Convivio, oggetto prevalente nella parte terza di questo libro.

Prima di metter mano al trattato filosofico, Dante aveva scritto canzoni in cui i modi stilnovisti alludono a un innamoramento di tipo nuovo, quello per la sapienza, come si sa, sebbene alcune di quelle liriche fossero in origine tematicamente complanari alla vicenda erotica e solo poi furono piegate alle ragioni della filosofia, come parrebbe probabile per Amor che ne la mente mi ragiona, che apre il libro III del Convivio e verrà citata con spiccate allusioni stilnovistiche in Purgatorio II, 106-114.

Ma Took glissa su questa ipotesi e ne approfitta per applicare a queste canzoni il suo approccio filosofico-psicologico, individuando in quelle figure e in quel linguaggio la «rappresentazione dell’ambivalenza di euforia e di angoscia» che si contendono l’animo del poeta in questa fase di ricollocazione teoretica e politica.

TOOK SI IMPEGNA a tracciare una biografia intellettuale estremamente coerente, di cui la parte quarta, prevalentemente dedicata alla Commedia, indaga l’esito.

Basterà cogliere il suggerimento dell’autore londinese a vedere nella parte finale dell’Inferno la condanna della «fraudolenza» e del «tradimento» come peccati di «disamore» e, più precisamente, come infrazioni del vincolo che lega ogni cittadino all’altro in un patto di «reciproca preoccupazione», per capire come l’amore, all’altezza del Poema, non attenga più al principio di piacere, ma a un’educazione politica, in quanto ammaestramento alla concordia, alla fedeltà, alla solidarietà e alla virtù: il che era già un’idea forte del Convivio (secondo la lezione del Laelius seu De amicitia di Cicerone), ancorché quel trattato filosofico si fosse rivelato esteticamente inadeguato a «dar conto dell’esperienza umana intesa nella sua globalità» e per questo era stato abbandonato.

Il destino imperiale di Roma e la critica alla corruzione pontificia, tematizzati in numerosi episodi della Commedia, si intrecciano, nell’ampio congedo di questo volume, alla ricostruzione del pensiero politico di Dante, consegnato alla Monarchia e alle quattro epistole indirizzate ai principi e ai popoli d’Italia, ai fiorentini, all’imperatore Arrigo VII e al conclave del 1314, dopo la morte di Clemente V.

QUESTA È CERTO la parte meno attuale dell’eredità di Dante, per quello spostamento del monopsichismo averroista («quasi che ogni essere umano semplicemente partecipi, pro tempore, a un unico principio intellettivo») dalla teologia alla politica, per contestare al guelfismo il modello ierocratico e giustificare il «governo di uno solo come unica garanzia della perfezione dell’uomo in quanto tale»; l’imperatore, infatti, sarebbe «l’incarnazione stessa della giustizia, la giustizia fatta uomo», poiché il suo potere supremo lo porrebbe al di sopra di ogni necessità. È di fatto una precoce teoria del principato assoluto, che la storia moderna e contemporanea si è incaricata di dimostrare nella sua ingannevole pericolosità. Ma di questa reductio ad unum profilata da Dante rimane il sogno di una conoscenza e di un amore finalmente compiuti, che si esprimono nel gareggiare di luce e sorriso, proprio del Paradiso.