«Quella in atto in Iraq non è una rivoluzione quanto piuttosto una rivolta in senso contemporaneo, priva di un programma politico e di precise richieste sociali. La rivolta ha comunque assunto una connotazione politica perché i miei concittadini contestano fermamente l’uso strumentale e fazioso della religione». È con queste parole che il poeta iracheno Kadhem Khanjar, 29 anni, commenta le manifestazioni che in questi giorni hanno luogo in diverse località del suo paese. Domani alle 11:30 sarà ospite al Festival Internazionale di Ferrara (ore 11:30 in piazza Verdi) per presentare la raccolta In guerra non mi cercate. Poesia araba delle rivoluzioni e oltre in cui sono pubblicati alcuni suoi versi (a cura di Oriana Capezio, Elena Chiti, Francesca Corrao e Simone Sibilio, Edizioni Le Monnier Università, pp. 202, €16).

A protestare in questi giorni sono uomini, donne, laureati, disoccupati, anziani. A motivarli sono la frustrazione, la disoccupazione, il non funzionamento dei servizi pubblici, la corruzione. Ad essere particolarmente numerosi sono gli sciiti.

È stato difficile raggiungere l’aeroporto di Baghdad per raggiungere l’Italia?

Molte strade erano chiuse, c’erano numerosi posti di blocco. Ci sono volute sette ore per arrivare di Baghdad partendo dal governatorato di Babel, quello a sud di Baghdad con capitale al-Hilla, dove si trovano i resti dell’antica Babilonia.

Gli iracheni erano scesi in strada a protestare anche lo scorso anno, a Bassora: per l’acqua non potabile, la corrente elettrica a intermittenza, la disoccupazione e la corruzione. Gli abitanti dell’Iraq sono 40 milioni, secondo la Banca mondiale il 22,5% vive con meno di due dollari al giorno. Quanto pesano la guerra e il fenomeno dell’Isis?

Siamo passati attraverso molteplici guerre, moriamo in conflitti decisi da altri. A causa della mancanza di un forte sentimento nazionale, oggi l’Iraq è dilaniato da gruppi sostenuti da paesi stranieri, ognuno dei quali fa propri gli interessi di forze esterne. Di conseguenza, il mio paese è sempre più diviso.

Lei ha iniziato a scrivere a soli 13 anni, nel 2003, mentre gli americani invadevano l’Iraq. Ha studiato teatro e creato con altri giovani la milizia della cultura, che organizza letture poetiche in luoghi martoriati dai conflitti e dagli attentati. Secondo lei la cultura può aiutare le popolazioni colpite dalle guerre?

La cultura è uno strumento indispensabile: la parola accoglie l’essere umano, trasforma il sangue in storie. Per essere efficace, deve però acquisire un certo spessore. Il problema, di questi tempi, è che a causare le guerre è la cultura debole: per questo motivo, bisogna contrastare la fragilità della cultura attraverso una maggiore profondità del sapere e più impegno da parte delle istituzioni, degli scrittori e degli artisti. Ognuno di noi deve dare il proprio contributo. Noi poeti abbiamo il dovere morale di scrivere, per esprimere il dolore delle persone trasmettendo coraggio e speranza.